Usa, passi falsi in Medio Oriente
Speriamo che dai colloqui di Washington tra israeliani e americani esca qualcosa di buono, capace di rianimare un processo di pace in condizioni simili al Lazzaro del Vangelo di Giovanni. Barack Obama è uomo di grande qualità e straordinariamente tenace, come ben attesta lo storico successo ottenuto sulla riforma sanitaria. Ma quello dell’ordine mediorientale è un tema ugualmente intrattabile e dall’altrettanto storica portata, per affrontare il quale il Presidente degli Usa si troverà a condurre una battaglia persino più solitaria.
Tra le tante politiche pubbliche, la politica estera è per definizione quella il cui successo non dipende totalmente dal governo che la elabora e la mette in opera, neppure quando si tratta della superpotenza americana. A farla naufragare o, meno drammaticamente, a procrastinarne e attenuarne gli effetti, non concorrono solo gli eventuali abbagli analitici, o le «resistenze» di avversari e rivali (che evidentemente giocano ognuno la propria partita), ma talvolta le mosse degli stessi alleati. L’inopportuna decisione israeliana di consentire nuovi insediamenti ebraici a Gerusalemme Est è tra queste. Mentre la condanniamo, occorre però riconoscere che essa è frutto di un’analisi convinta innanzitutto della debolezza della leadership e della crescente solitudine americana in Medio Oriente.
La sensazione è che gli Usa stiano perdendo innanzitutto la presa sugli alleati nella regione: non solo gli israeliani, ma anche la Turchia (nonostante proprio da Ankara Obama avesse inaugurato il suo primo viaggio europeo) e persino l’Iraq, che è sempre più impaziente di liberarsi dei soldati di Petraeus.
Se Netanyahu sfida così apertamente Obama, è perché sa che l’America non è in grado né di sanzionare seriamente Israele né di cambiare significativamente per il meglio l’orizzonte strategico in cui Israele vive. Da un lato, come dovette pubblicamente ribadire Hillary Clinton appena 48 ore dopo una dura sfuriata nei confronti delle autorità israeliane, «l’impegno americano a favore della sicurezza di Israele» prescinde da qualunque contingente divergenza di opinione, anche aspra (esempio di quello che gli arabi chiamano «doppio standard»). Dall’altro, l’amministrazione Obama non è riuscita a far rallentare di un solo giorno la prospettiva di un Iran nucleare, vero e proprio incubo della dirigenza israeliana. Anzi, l’aver trascurato di impegnare più frontalmente l’Iran sulla questione dei diritti umani e delle elezioni truccate a favore della sola issue nucleare ha finito col fornire a Mosca e Pechino uno spazio sempre maggiore in Medio Oriente, trasformandoli di fatto nei protettori degli ayatollah. Questo è lo scenario che contemplano anche gli arabi, che dopo il «discorso del Cairo» (tanto ispirato quanto audace) si aspettavano molto di più dal presidente Obama e che invece vedono gli «altri» (israeliani, iraniani e turchi) acquisire sempre più peso e autonomia a scapito loro. Serve un cambio di rotta rapido e incisivo, un segnale che «compensi» il ritiro delle truppe dall’Iraq e sia in grado di chiarire a tutti (alleati, avversari e neutrali) che gli Stati Uniti hanno intenzione di tornare a esercitare una leadership effettiva nel Medio Oriente.
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