Obama’s Metamorphosis

<--

Gli Stati Uniti hanno da qualche settimana un nuovo presidente o, perlomeno, una incarnazione alquanto diversa della persona eletta alla Casa Bianca nel novembre 2008. Obama è meno intellettuale, meno conciliante, meno disposto a offrire la sua mano all’avversario. È diventato brusco e grintoso. Ha cancellato il tradizionale vertice degli Usa con l’Unione Europea. Ha interrotto una conversazione con il premier israeliano per andare a pranzo. Ha avuto colloqui telefonici con altri leader politici che sono stati definiti «franchi» (la parola preferita dalla diplomazia quando deve descrivere uno scontro politico fra persone che hanno opinioni diverse). E ha deluso senza battere ciglio il suo elettorato ambientalista dando il via alla trivellazione di nuovi pozzi petroliferi in zone protette che neppure il suo predecessore aveva osato violare. Il vero Obama, spogliato infine della veste liberal con cui si era presentato alla società del suo paese? O una fase transitoria dettata dalle circostanze?

È probabile che all’origine di questa metamorfosi vi sia il lungo viaggio della riforma sanitaria attraverso il Congresso. Vi è stato un momento in cui la battaglia stava per essere perduta. Obama è riuscito a rovesciarne le sorti cancellando ogni altro impegno e dedicandosi interamente alla questione che gli stava a cuore. Ha vinto, alla fine, grazie all’appoggio determinante di Nancy Pelosi, presidente della Camera dei rappresentanti, e a una serie di patteggiamenti che hanno considerevolmente diluito la portata del progetto originale. Ma non è riuscito a incrinare il fronte dei repubblicani e sa che i numerosi avversari della riforma sono decisi a cercare la rivincita nelle urne di novembre, quando gli americani voteranno per il rinnovo parziale del Congresso.

Non basta. Obama sa che i neoconservatori sono riemersi dall’ombra e stanno organizzando una micidiale offensiva contro la sua politica estera. Gli ricordano, con evidente compiacimento, che le sue iniziative internazionali non hanno sortito alcun effetto. Le operazioni militari in Afghanistan hanno prodotto qualche buon risultato, ma non hanno colpito al cuore i talebani. In Pakistan e in Iraq il terrorismo continua a seminare il terrore e a mietere vittime. In Iran il regime non è più minacciato dall’opposizione e continua a perseguire una politica nucleare che l’America considera intollerabile.

Ma il capitolo più dolente della politica estera inaugurata dal presidente rimane Israele. I neoconservatori accusano Obama di avere tradito il suo migliore amico in Medio Oriente. I liberal gli rimproverano di non essere stato sufficientemente energico con un governo che ha sistematicamente respinto, in materia d’insediamenti, le richieste di Washington.

Piuttosto che combattere in difesa Obama ha deciso di contrattaccare nella speranza d’incassare successi che gli permettano di affrontare da posizioni migliori la prova elettorale di novembre. Ha firmato a Praga con Dmitri Medvedev un trattato per la limitazione delle armi nucleari. Cercherà di convincere Cina e Russia ad accettare un pacchetto di sanzioni contro l’Iran. Continuerà a esercitare pressioni su Israele per la conclusione di un accordo con la Siria. Ma è probabile che il fattore decisivo, da cui dipenderà l’esito delle elezioni di novembre, sia l’economia.

Se i buoni segnali saranno confermati, il presidente ha buone possibilità di uscire dalle elezioni a testa alta. Se la ripresa è fragile e l’economia stagnante, nessun successo internazionale gli eviterà di convivere sino alla fine del suo primo mandato con una maggioranza repubblicana al Congresso.

About this publication