Le ultime vicende della finanza americana sembrano tratte da «Thriller», il video di Michael Jackson. Immaginate la scena: è notte fonda in una deserta Wall Street. Da tombini vuoti e grattacieli bui incominciano ad apparire delle strane figure, società-zombie che si pensavano perdute per sempre. Dopo mesi nell’aldilà sono ritornate tra i vivi, grazie alla generosità dei contribuenti statunitensi.
La tenue luce della luna ci permette di riconoscere alcune facce note. C’è la Citigroup, il gigante bancario che il governo americano ha tenuto a galla con 45 miliardi di dollari, la General Motors che andò in bancarotta dopo aver sperperato i soldi dello Zio Sam, e perfino l’Aig – la società di assicurazioni più grande e temuta del mondo che crollò come un castello di carte nel 2008. Non tutti questi morti viventi sono in grande forma. La Goldman Sachs, per esempio, che fu una delle prime banche a ripagare gli aiuti federali e a ritornare a guadagnare utili stratosferici, è braccata da regolatori e politici. Solo ieri, la Securities and Exchange Commission – l’authority del settore – ha accusato la Goldman di frode, dicendo che nascose delle informazioni importanti ad investitori che comprarono uno dei suoi prodotti «subprime» (complicatissime obbligazioni «costruite» con mutui sulle case dei poveracci).
Goldman ha negato tutto ma l’attacco della Sec è durissimo perché accusa la più famosa banca di Wall Stret di essere al centro del sistema marcio e corrotto del subprime che ha portato alla crisi. I grandi banchieri con cui ho parlato ieri pomeriggio erano in stato di choc e non uno era pronto a scommettere contro la mia previsione che Lloyd Blankfein, il potentissimo capo della Goldman, potrebbe essere silurato nei prossimi giorni.
Ma a parte la Goldman, gran parte del resto del settore finanziario è in forte ripresa. Forse non è un caso, ma la Pasqua è passata da poco e nei salotti buoni di New York e Washington non si fa altro che parlare della resurrezione di aziende che erano state date per morte. La Citi sta per annunciare il primo utile trimestrale in due anni e le azioni hanno preso il volo da quando il Tesoro americano ha detto che venderà la sua quota del 27 per cento. La Gm già parla di ripagare i 6,7 miliardi ricevuti dai cittadini americani, mentre il capo dell’Aig sta tentando di convincere il governo a liberare l’azienda dal giogo di una partecipazione azionaria dell’80 per cento. L’amministrazione Obama non ha perso l’occasione per mettere in imbarazzo i cosiddetti esperti (me incluso) che avevano predetto che il governo federale avrebbe perso quasi tutti i soldi spesi nel fare la respirazione bocca-a-bocca all’economia Usa. Gli esperti del Tesoro hanno fatto sapere che il costo dell’operazione-salvataggio non ammonterà a più di 89 miliardi di dollari perché gran parte degli aiuti sono stati, o saranno, ripagati con interessi. Ottantanove miliardi non sono pochi, ma la cifra è ben al di sotto dei 250 miliardi predetti dal governo un anno fa, e meno dell’uno per cento del Pil americano (tanto per dare un’idea, il crollo delle casse di risparmio negli Anni 80 costò ai consumatori americani più del 3 per cento del Pil). Come ha fatto il governo Obama a trasformare un probabile tracollo economico in una bazzecola, una postilla in fondo al bilancio annuale di Usa Inc.?
I fan del Presidente già gridano al miracolo e raccontano di un team – il segretario del Tesoro Tim Geithner, il super-consigliere Larry Summers, il capo della Federal Reserve Ben Bernanke – che ha acciuffato l’America sull’orlo del baratro economico e l’ha guidata con tranquillità verso la salvezza. In realtà il Presidente e gli altri abitanti dell’ala Ovest della Casa Bianca sono stati un po’ bravi e molto fortunati. Gli aiuti immensi distribuiti dai governi Bush e Obama ai settori più deboli dell’economia americana – investimenti diretti ma anche tassi d’interesse bassissimi e prestiti a poco prezzo – hanno creato un circolo virtuoso che pochi avrebbero pronosticato due anni fa. Le dosi da cavallo di medicine made in Washington hanno salvato l’economia da una recessione che sembrava destinata a diventare un ristagno economico stile Giappone. La ripresa ha, a sua volta, permesso alle imprese di ricominciare a investire e ad assumere impiegati, alle banche di fare soldi finanziando queste attività e ai consumatori di ritornare nei negozi.
I mercati hanno fiutato il cambiamento di aria e si sono messi a tirare – questa settimana l’indice-guida della Borsa di New York ha toccato il punto più alto dal settembre del 2008 – aumentando gli utili di banche d’affari che comprano e vendono titoli e obbligazioni. Come ama dire il leggendario investitore Warren Buffett, «a rising tide lifts all boats» – quando sale, la marea solleva tutte le barche – ed è così che le onde della ripresa americana hanno aiutato perfino società che erano naufragate come la Citi, la Gm e l’Aig. Alla fine il risultato è quello che conta, e in questo caso il risultato è positivo non solo per l’America ma per noi tutti: l’economia statunitense sta crescendo e il sistema bancario più importante del mondo è ancora in piedi. Tanto di cappello ai signori dell’ala Ovest. Però prima di lanciarci nei panegirici a Obama, Geithner e Summers vale la pena ricordarsi che lo stesso programma di aiuti sarebbe potuto finire male, anzi malissimo.
Se l’economia non avesse risposto alla terapia-shock di interessi a tasso zero, aiuti senza precedenti a istituzioni finanziarie e consumatori, e interventi mastodontici nei mercati, le autorità statunitensi avrebbero messo a repentaglio il futuro del Paese con un deficit fiscale sempre più enorme, un Pil che non cresce e un tessuto sociale corroso dalla disoccupazione alle stelle. Per fortuna, l’economia e la base aziendale – le grandi multinazionali ma anche le piccole e medie aziende che sono l’asse portante dell’imprenditoria Usa – hanno risposto, riaccendendo gli impianti, chiedendo prestiti alle banche e vendendo prodotti ai consumatori sia in America che all’estero. Per spiegare il successo dell’operazione architettata dal team Obama bisogna chiamare gli psicologi, non gli economisti. La differenza tra recessione e ripresa è stato il fatto che i mercati, le aziende e i consumatori ci «hanno creduto» – sono tornati a lavorare nella speranza che, come dicono a Broadway, «it will be alright on the night» (andrà tutto bene in prima serata). L’ottimismo quasi panglossiano degli americani è uno dei tratti caratteriali più disprezzati da noi europei – soprattutto negli ambienti cinici e duri della finanza e dei grandi affari (e pure, diciamolo, del giornalismo).
Anche il culto del successo individuale e l’etica spartana del lavoro – due capisaldi del «sogno americano» che ancora anima le speranze e gli obiettivi di gran parte degli Stati Uniti – sono spesso considerati alieni, quasi di cattivo gusto, nel Vecchio Continente. Portate all’eccesso, queste caratteristiche americane sono controproducenti – e la crisi degli ultimi due anni è un esempio perfetto di un disastro globale causato dal desiderio sfrenato e arrogante di un popolo che si sentiva in diritto di vivere al di sopra dei propri mezzi senza riguardo per le conseguenze. Allo stesso tempo però l’ingegnosità di un Paese giovane con una classe imprenditoriale a cui piace rischiare (chi aveva sentito parlare di Google 15 anni fa?) e una forza lavoro flessibile e molto mobile si è rivelata l’arma vincente per un’economia ferita quasi a morte.
Vista dall’America, col suo sistema sanitario da terzo mondo, immense disparità tra ricchi e poveri, e un mondo del lavoro che sembra sia stato progettato da Stakhanov, la piccola Europa sembra spesso un’isola felice. Ma basta guardare la tragedia greca della crisi della zona euro per capire che, in questo caso, l’America è riuscita ancora una volta a dar torto agli scettici e a far meglio dei Paesi sull’altra sponda dell’Atlantico.
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