The American Turning Point

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Sì all’agenzia per il consumatore e all’obbligo di trattare i derivati in Borsa. No al fondo di protezione per le grandi banche

L’America sta preparando la più importante riforma del sistema finanziario dagli anni Trenta. Nel 1933 il terreno fu preparato da una commissione di inchiesta condotta da un giovane procuratore italo-americano: Ferdinand Pecora. Anche se le accuse di manipolazione dei prezzi di Borsa sollevate da Pecora si rivelarono per la maggior parte infondate (o almeno non furono mai provate), le sue udienze ebbero un enorme effetto politico. Trasmesse per radio, fomentarono la rabbia contro il settore finanziario responsabile, secondo la visione popolare, del crollo azionario e della depressione che ne era seguita. Sullo sfondo di questo contesto politico il Securities Act (uno dei cardini legislativi del mercato azionario americano) fu approvato in pochi mesi. Per approvare il secondo pilastro (il Securities and Exchange Act) ci volle più di un anno. Per approvare il terzo pilastro (l’Investment Companies Act) ci vollero altri sei anni. Questo progressivo rallentamento non fu dovuto alla complessità degli argomenti trattati, ma all’affievolirsi del sostegno popolare per le riforme accompagnato da un crescente potere di interdizione dell’industria finanziaria che, dopo la crisi, si stava lentamente risollevando.

Phil Angelides, l’attuale presidente della Commissione di indagine sulla crisi finanziaria, non ha la stessa verve di Pecora. Eppure il sostegno popolare per una riforma rimane alto, nonostante la crisi finanziaria ed economica sembra essere alle nostre spalle. A riaccendere gli animi ha contribuito l’accusa di false comunicazioni sollevata dalla Securities and Exchange Commission nei confronti di Goldman Sachs. In queste condizioni risulta difficile, per i deputati e i senatori che si devono confrontare con gli elettori a ottobre, spiegare perché non hanno approvato alcuna riforma. Per questo motivo il presidente

Obama spinge, rendendosi conto che ha di fronte un’opportunità irripetibile: se la riforma non passa entro ottobre, rischia di non passare mai. Anche i repubblicani, che finora hanno fatto l’opposizione a tutti i costi, si trovano in difficoltà. Se si azzardano a fare filibustering, rischiano di trovarsi contro l’intera opinione pubblica.

Una riforma, quindi, è quasi inevitabile, ma sarà una buona riforma? Per lo più sì. Il maggior passo avanti contenuto nella proposta del Senato è l’obbligo di contrattare la maggior parte dei derivati in Borsa, con la liquidazione effettuata da una parte terza. Questo aumenta la trasparenza del sistema e ne aumenta la stabilità. Come avviene oggi per futures and options, la Borsa dove verranno scambiati gli altri derivati richiederà margini sufficienti per garantire la solvibilità delle controparti ed evitare di trovarsi nella situazione del gruppo Aig, che richiese l’intervento del governo americano per 180 miliardi di dollari. Anche l’istituzione di un’agenzia per proteggere il consumatore è una buona idea. La crisi è stata in parte dovuta a molte famiglie che hanno preso a prestito dei mutui a condizioni che non capivano. Come la Sec fu creata per proteggere gli investitori non sofisticati è giusto che ci sia un’agenzia a protezione dei debitori non sofisticati.

Gli altri due punti della riforma sono più controversi. La cosiddetta Volcker rule, che impedisce alle banche di fare attività di trading, è una risposta sbagliata ad una esigenza legittima, ovvero limitare il rischio assunto dalle banche. Questa crisi non è nata dall’attività di trading delle banche, ma dalla eccessiva esposizione ai mutui subprime. La Volcker rule non avrebbe evitato la crisi e rischia di aggravare i costi delle banche.

Ma l’aspetto più controverso è quello del fondo di protezione per le grosse banche. Questo fondo viene creato imponendo una tassa alle banche che sono considerate troppo grandi per fallire. Anche qui la proposta nasce da un’esigenza più che legittima: evitare che in futuro i contribuenti siano chiamati di nuovo a pagare per salvare delle banche. Imponendo una tassa che è indipendente dal rischio assunto, però, non si fa altro che favorire l’assunzione di rischio. La tassa renderà palese quali sono le istituzioni garantite. E queste istituzioni avranno tutto l’interesse a rischiare: se sono fortunate guadagnano in proprio, se falliscono paga il fondo di protezione. L’opposizione dei repubblicani su questo punto è sacrosanta. Speriamo che per una volta lo spirito bipartisan prevalga, partorendo un compromesso migliore. Tutti ne sarebbero grati. E non solo negli Stati Uniti.

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