Shifting American Policies Are Fragmenting Afghanistan

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Nove mesi fa il generale Stanley McChrystal aveva avvertito il suo ministro, Robert Gates, che in assenza di una radicale svolta sul terreno, la guerra in Afghanistan rischiava di finire fuori controllo entro un anno. Mancano tre mesi alla scadenza. Rispetto all’estate scorsa la campagna americana e alleata non solo non dà segni di successo, ma sembra avvitata in una logica di sconfitta. McChrystal proponeva di spostare l’accento dalla guerra contro i talebani alla protezione della popolazione. Allo stesso tempo, si preoccupava di “vendere” una mezza sconfitta come una vittoria, riportando qualche significativo successo militare. Per questo chiedeva più soldati e cercava di affinare gli strumenti di propaganda. Obiettivo, afghanizzare il conflitto e poi affidare ai locali la responsabilità della gestione di un Paese segnato da trent’anni di guerra. Obama gli concedeva una buona parte dei rinforzi richiesti, ne approvava il concetto strategico, ma contemporaneamente annunciava la volontà americana di ritirarsi a partire dal luglio 2011, in modo da “deafghanizzare” la campagna elettorale per la sua rielezione alla presidenza. L’errore più grave commesso dal presidente era di dichiarare contemporaneamente l’attacco e la ritirata.

Risultato: tutti gli attori del conflitto, diretti o indiretti, interni o esterni all’Afghanistan, fanno i loro calcoli sul dopo-ritiro. A cominciare dallo stesso presidente Karzai, che da fantoccio americano si è travestito da fiero nazionalista. Fino a proporsi come interlocutore diretto del mullah Omar e degli altri capi insorti. Ne sta derivando la crescente frammentazione del campo di battaglia. Fra gli alleati, gli olandesi sono sul piede di partenza, i canadesi seguiranno entro breve. Molti paesi impegnati nella missione Isaf per compiacere gli americani si interrogano seriamente sull’opportunità di restare ancora in un teatro dal quale gli Stati Uniti vogliono andarsene. Nella galassia degli insorti, la svolta di Obama ha sparpagliato gli attori, tanto che oggi si contano almeno una dozzina di formazioni combattenti contro gli stranieri, ben al di là dei talebani doc. Tra le potenze regionali, infine, India e Pakistan si preparano ad affilare le armi per risolvere la disputa su chi fra loro abbia il diritto di esercitare un’egemonia indiretta sull’Afghanistan, mentre l’Iran ragiona su come usare il territorio afghano in caso di

aggressione israeliana/americana. Quanto ai russi, pagherebbero volentieri di tasca loro i militari occidentali affinché restassero a tempo indeterminato in Afghanistan, per impedire che il radicalismo islamico ne faccia una punta di lancia contro il ventre molle della Russia meridionale. Pechino condivide dal suo punto di vista i timori russi, ma appare sconcertata dalle oscillazioni di Washington.

E noi? Ogni volta che un soldato italiano cade, si riaccendono i riflettori su una missione ormai impopolare o peggio incomprensibile all’opinione pubblica. Salvo poi spegnere le luci e affidarsi all’inerzia, fino al prossimo caduto. Non è mai troppo tardi per rendersi conto che questa passività è irragionevole e pericolosa. Governo e opposizione dovrebbero finalmente raccontare almeno parte della verità su ciò che i nostri soldati stanno facendo in terra afghana. E soprattutto spiegare perché vogliono tenerceli. Possibilmente non trincerandosi dietro gli slogan.

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