A Step Back for the White House

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Tutti d’accordo sul riavviare colloqui diretti tra Autorità Palestinese e governo israeliano, nel ritenere la prospettiva di un Iran nucleare una minaccia inaccettabile alla sicurezza regionale, e nel ribadire il legame «infrangibile tra Stati Uniti e Israele». Ma al di là delle belle parole, è Benjamin Netanyahu a uscire vincitore dai colloqui allo Studio Ovale ed è Barack Obama a dover fare buon viso a cattivo gioco. Forse Obama ha scelto ancora una volta di privilegiare l’agenda interna, ha pensato alla potentissima lobby ebraica e alla sua capacità di influenzare le elezioni di mid term, già presentate come un test decisivo per una presidenza in serio calo di popolarità. Ma forse è anche l’inizio della revisione di una strategia, quella dell’amministrazione Usa, che fin qui ha portato risultati davvero scarsi.

L’ambizioso, e generoso, progetto di Obama di ricollocare gli Usa come un honest broker in Medio Oriente si è probabilmente scontrato con la realtà: una realtà nella quale l’America di Obama è decisamente meno potente di quella di Clinton e persino di quella di George W. Bush, anche se di quest’ultima senz’altro più accattivante.

Il vertice sembra non aver neppure preso in seria considerazione lo scontro tra i due principali alleati americani nella regione, Israele e Turchia, che è sempre meno ipotetico: per la rigidità israeliana, per l’errore di calcolo turco e per la perdita di influenza americana.

Dopo avere puntato sulla Turchia come ponte tra Occidente e Islam, aver tentato un approccio soft con il regime iraniano, aver pronunciato un brillante discorso al Cairo, aver annunciato un cambio di strategia in Afghanistan (sconfessando e rilegittimando il presidente Kharzai a settimane alterne) e aver più volte preso le distanza dalla politica del governo israeliano, i risultati portati a casa da Obama sono modestissimi. Un’escalation tra Israele e la Turchia che pure non giungesse allo scambio di cannonate per difendere la prossima «freedom flottilla», già pronta a salpare, dischiuderebbe una prospettiva persino più devastante per il futuro della Nato di quella dello scontro militare tra Turchia e Grecia negli Anni 70 (durante la crisi di Cipro), perché avrebbe per oggetto quel Medio Oriente in cui la Nato è sempre più coinvolta.

Gli israeliani, che pure portano a casa da questo vertice un successo insperato, non possono nascondersi un fatto evidente: che con la Turchia perdono il solo alleato che avevano nella regione, di fatto rafforzando «l’arcinemico» iraniano, che Ankara appare peraltro disposta a riconoscere come interlocutore a tutti gli effetti. Così Teheran capitalizza ulteriormente gli effetti della guerra del 2006 (disastrosa per Israele), con la progressiva fuoriuscita del Paese dei Cedri dalla sfera occidentale, la ripresa dell’influenza siriana e il consolidamento del potere politico del Movimento sciita suo alleato.

La Turchia, dal canto suo, continua a non capire che pensare di poter giocare un ruolo maggiore in Medio Oriente, in grado di disimpegnarsi tra multiple alleanze, senza che questo metta in crisi il suo tradizionale e sempre più incerto posizionamento occidentale è una pericolosa illusione. Il solo fatto che il governo di Ankara possa pensare di chiudere lo spazio aereo ai velivoli commerciali israeliani, o definisca Israele uno «Stato pirata» (con una retorica pericolosamente prossima a quella di Ahmadinejad) colloca oggettivamente la Turchia pericolosamente ai margini dello schieramento occidentale, che vede in Israele un partner comunque diverso e privilegiato rispetto agli altri Stati della regione.

D’altronde, e questo è il corollario più preoccupante e beffardo di tutta la situazione, a quasi nove anni dall’11 settembre e nonostante tutti gli sforzi profusi innanzitutto dagli Usa, il germe del radicalismo religioso pervade la regione e conquista o riconquista terreno: dal Libano all’Iraq, dall’Afghanistan all’Iran, alla Turchia e allo stesso Israele, che sempre più Israele assomiglia agli altri Stati della regione, in cui la politicizzazione delle religioni gioca un ruolo decisivo e per nulla benefico.

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