The Decline of the American Empire

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Veni Vidi Vici. C’era un tempo, non tanti anni fa, quando il motto di Giulio Cesare era la summa della politica economica internazionale degli Stati Uniti. Ogni volta che un’economia in via di sviluppo si trovava nei guai, vedi la Thailandia e il resto dell’Asia nel 1997-98, o era sull’«orlo» del capitalismo, tipo la Cina e la Russia post-comuniste, gli emissari americani arrivavano nelle loro limousine nere a offrire consigli non proprio disinteressati. La medicina americana, spesso somministrata dai dottori del Fondo Monetario Internazionale (il cui più grande sponsor è, ovviamente, lo Zio Sam) era sempre la stessa: misure di austerità per ridurre il deficit e mettere in sesto la bilancia commerciale, accompagnate dall’apertura dei mercati alle aziende e banche straniere, ovverosia americane.

Quando ero di stanza in Asia, le ho viste spesso quelle «motorcades» – i cortei di auto tutte rigorosamente made in Usa – che sfrecciavano per le vie di Pechino prima di scomparire dietro i muri altissimi dei complessi governativi. Dentro c’erano politici, uomini di affari e diplomatici venuti a dire ai leader cinesi che era venuto il momento di aprire la muraglia per farli entrare nel più grande mercato del mondo. Protetti dagli stendardi del libero mercato e del libero commercio, i governi statunitensi hanno aperto nuovi orizzonti per multinazionali e banche d’affari. Le varie General Electric, Exxon, Goldman Sachs and Morgan Stanley sono state gli ultimi esponenti, forse inconsapevoli, di una lunga tradizione di colonialismo economico, eredi della East India Company che aiutò e beneficiò dell’impero coloniale anglosassone e delle «Hong», i conglomerati monopolistici della Hong Kong britannica. Se non ci credete, leggetevi la lista delle banche che dominano i flussi di capitali internazionali.

I nomi delle società che vendono azioni o comprano rivali cambiano ma i loro consiglieri finanziari provengono sempre da un oligopolio di quattro, cinque banche americane con l’aggiunta di un paio di concorrenti europei. A chi si opponeva a questa pax americana in materie economiche, gli Stati Uniti rispondevano con le parole che Carly Simon cantò nei titoli di apertura di uno dei film di Bond: «Nobody does it better», «Nessuno lo fa meglio». Lo strapotere economico dell’America – almeno sin dalla caduta del Muro di Berlino – le aveva conferito il diritto di dettare legge al mondo intero su questioni di finanza e di affari. Gli avvenimenti degli ultimi tre anni hanno spostato l’ago della bilancia del potere economico internazionale. A differenza del passato, questa crisi è nata e cresciuta in America prima di dilagare nel resto del mondo. Non solo, ma il tumulto è stato il risultato diretto di pratiche finanziarie prettamente americane (i mutui subprime e la loro trasformazione in obbligazioni vendibili ad investitori) da parte di banche che si credeva fossero tra le più sofisticate e prudenti del mondo.

Le autorità governative ci hanno messo la loro, sostenendo una deregulation sfrenata di mercati ed economia che ha permesso a Wall Street di inventare prodotti ad alta tossicità senza che nessuno dicesse nulla. E la banca centrale – la Fed dell’ex santone Alan Greenspan – ha gonfiato la bolla tenendo tassi d’interessi così bassi per così tanto tempo che il denaro per scommettere sui mercati era praticamente gratis. Greenspan e i suoi successori possono parlare quanto vogliono di una «crisi inaspettata», uno «tsunami finanziario imprevedibile» e di «100-year flood» (l’inondazione che avviene una volta ogni cento anni) ma la realtà è che sia loro sia Wall Street hanno fatto errori elementari ed evitabili. La parola-chiave qui è «elementari», perché l’incompetenza e l’avidità del sistema finanziario americano hanno messo a nudo il fatto che non sempre gli Stati Uniti «lo fanno meglio» degli altri. E’ questa la conseguenza forse più duratura e grave della crisi: il declino dell’impero economico americano.

I segni della fine di un ciclo abbondano. I governi di Paesi in via di sviluppo – primi fra tutti i cinesi e i russi – non hanno più nessuna intenzione di obbedire alle prediche degli americani sull’economia. Anzi, negli ultimi vertici vari leaders dell’Est e dell’Ovest non hanno perso l’occasione per punzecchiare gli americani sulle cause della crisi. Basta guardare come Pechino ha risposto alle ripetute richieste di Washington per un rialzo della sua valuta: no, no e ancora no. La posizione è cambiata di recente, ma solo perché il governo cinese ha deciso che un aumento del renminbi sarebbe servito a calmare la crescita economica e combattere l’inflazione. Come diceva Giucas Casella: «Solo quando lo dico io!». La baldanza dei cinesi è comprensibile. Sanno benissimo che gli Stati Uniti sono in difficoltà e che dipendono sempre di più dalla Cina – Pechino è uno dei più grandi finanziatori dell’enorme deficit americano e le esportazioni di beni cinesi in America hanno creato un surplus commerciale enorme a favore dell’economia del Dragone. E se queste sono tendenze che hanno preceduto la crisi, ci sono nuovi trend che dovrebbero preoccupare i signori della finanza americana.

L’ascesa delle banche cinesi è senz’altro uno. Se, come sembra, la quotazione della Banca dell’Agricoltura Cinese – fino a poco tempo fa una delle peggiori istituzioni finanziarie del mondo – andrà in porto, quattro delle dieci banche più grandi del mondo per capitalizzazione saranno cinesi (gli Stati Uniti ne hanno altre quattro mentre la vecchia Europa solo due). E’ chiaro che le banche cinesi sono grandi perché il mercato interno a loro disposizione (grazie in parte alle politiche protezionistiche di Pechino) è immenso e non sono ancora in grado di attaccare una Goldman o JP Morgan. Ma la storia insegna che, una volta conquistata la madre patria, le istituzioni finanziarie cinesi guarderanno oltre confine per espandersi e far crescere gli utili – proprio come le banche americane fecero nel Dopoguerra. Altre società stanno già sfruttando la globalizzazione per invadere i mercati occidentali e mettere in difficoltà i suoi campioni aziendali.

Nomi come la Tata – il gruppo indiano che si è comprato la Jaguar e il tè Tetley dagli inglesi – o la Huawei – il gigante delle telecomunicazioni cinese che ha più volte pensato all’acquisizione della Motorola – potrebbero, in un giorno non tanto lontano, diventare ben noti come la General Electric o la Siemens. Il settore delle risorse naturali, per esempio, è già un campo di battaglia con società come la Ongc indiana, la Rusal russa e la Cnooc cinese in rotta di collisione con la Exxon, la Chevron e la Total. E’ possibile che questi nuovi arrivati rampanti possano sperperare i loro vantaggi, come successe alle società giapponesi negli Anni 80, e riconsegnare le chiavi del capitalismo mondiale alle potenze occidentali. La speranza, si dice, è l’ultima a morire ma i pii desideri non sono mai stati una grande strategia economica. Se il veni vidi vici non funziona più, i governi e le società americane dovranno fare in modo che la crisi finanziaria non si trasformi nelle loro idi di marzo.

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