Google-dipendenti, spaesati e incapaci di valutare l’attendibilità di un sito. Sono così, secondo uno studio americano, i giovani internauti che utilizzano la rete per gran parte delle loro ricerche. Il loro motto potrebbe essere “In Google We Trust”, visto che è il motore di ricerca, nella maggior parte dei casi, a determinare in cosa credono e su cosa dubitano. Fatto ancor più grave, in tanti si affidano acriticamente ai grandi marchi e a rotte di navigazione già percorse, rinunciando al brivido della scoperta a vantaggio della pigrizia mentale.
La stangata ai “nati digitali”, la generazione cresciuta giocando al computer piuttosto che con bambole e macchinine, arriva dalla Northwestern University di Chicago. In uno studio pubblicato sulla rivista “International Journal of Communication” i ricercatori hanno analizzato i meccanismi di “fiducia” che guidano gli internauti nella ricerca di informazioni. Tra le note più inquietanti c’è la tendenza a non distinguere le pagine consigliate dai link pubblicitari e un interesse sempre più scarso per l’autore. E’ da qui, secondo alcuni, che ha origine un altro fenomeno tipico della “generazione internet”: il copia e incolla senza ritegno, indice di un concetto di plagio quanto meno cambiato.
Fuori dal contesto. Come spiegano i ricercatori, per gli studenti giudicare l’attendibilità di ciò che si trova in rete è un compito assai difficile, oltre che non sempre sentito come necessario. In tutta probabilità il problema dipende dalla struttura stessa della conoscenza online, che presenta tutti i contenuti nello stesso tipo di formato. Visivamente, infatti, una pagina web è sempre una pagina web, sia che si tratti di un articolo passato al setaccio da un’attenta commissione scientifica, o del blog di un sedicente astrofisico. Secondo gli autori, è proprio questa mancanza di indizi contestuali a essere responsabile del disorientamento nelle valutazioni. Ecco allora che i motori di ricerca, nella mente degli studenti, assurgono al ruolo che un tempo era riservato alle enciclopedie: dare un ordine ai contenuti.
Lo strapotere dei motori di ricerca. “Lo ha detto Google!”, oppure “E’ vero, l’ho googolato io!” sono alcune delle risposte tipiche fornite dagli oltre mille ragazzi tra i diciotto e i vent’anni che hanno partecipato allo studio. Per i ricercatori, affermazioni di questo tipo mostrano come i motori di ricerca siano diventati sempre più importanti nel definire la percezione di ciò che si ritiene più o meno attendibile. “In sostanza – spiegano – marchi come Google, Yahoo, Bing e Wikipedia sono diventati l’equivalente dei tradizionali custodi del sapere. Gli studenti tendono a fidarsi ciecamente nelle loro capacità di fornire sempre e comunque i contenuti più rilevanti”. Secondo un sondaggio del Pew Research Center, oltre il 70 per cento degli under trenta vede i motori di ricerca come “fonti di informazioni complete e imparziali”, anche se il 62 per cento dichiara di non essere sempre in grado di distinguere tra collegamenti pubblicitari e link in primo piano.
Il primo della lista, tra credibilità e popolarità. Prevedibilmente, l’ordine con cui appaiono i risultati ha un peso nella percezione della loro attendibilità. Secondo lo studio della Northwestern University, più di un quarto degli studenti si affida al primo sito che compare nella ricerca. In alcuni casi, gli intervistati hanno esplicitamente detto di considerare il motore di ricerca come l’entità rilevante in base a cui valutare la credibilità dei contenuti, piuttosto che il sito internet che li distribuisce. Ciò dimostra, tra le altre cose, una scarsa o nulla conoscenza dei meccanismi che determinano l’ordine di visualizzazione dei risultati, come ad esempio PageRank, l’algoritmo regolatore di Google. In ballo c’è la distinzione tra “popolarità” e “affidabilità” di una pagina web: strumenti come PageRank, infatti, ordinano i siti in base al numero dei loro collegamenti con altri indirizzi IP, cosa che se da un lato è indice di credibilità, dall’altro non è garanzia di qualità.
Se l’autore scompare. “C’è un altro aspetto che indica la fiducia dei giovani nei motori di ricerca”, spiega Eszter Hargittai, sociologa della Northwestern University: “Il fatto che molti di loro semplicemente non sentano il bisogno di indagare i risultati dal punto di vista di chi li ha scritti”. Dei partecipanti allo studio, solo il 10 per cento ha cercato informazioni sull’autore di un determinato contenuto, e ancora meno si sono soffermati sulle sue qualifiche. A causare questo disinteresse, secondo Teresa Fishman, direttore del Centro per l’Integrità Accademica della Clemson University, è il modo stesso in cui i “nati digitali” si approcciano al sapere nell’era di internet. “Ci troviamo di fronte a una generazione di studenti cresciuti con l’idea di un cyberspazio colmo di informazioni che sembrano non avere un autore. In un quadro del genere – aggiunge Fishman – è comprensibile che i concetti di autorialità e proprietà intellettuale diventino sempre più sfumati”.
Il plagio, questo sconosciuto. Che “chi ha scritto cosa”, per gli studenti, sia spesso poco importante è dimostrato dalla naturalezza con cui praticano il copia e incolla da internet. Sempre secondo il Centro per l’Integrità Accademica, dal 2006 al 2010 è diminuito il numero dei collegiali americani che ritengono che copiare dalla rete sia una “seria violazione delle regole scolastiche”: oggi sono solo il 29 per cento, contro il 34 per cento di quattro anni fa. La maggior parte, spiegano gli esperti, pensa che basti alzare le mani e dire, con innocenza, “Lo ha detto Google, quindi non solo è vero, ma si può anche copiare”.
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