Obama’s Loss of Popularity Isn’t All His Fault

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L’immagine di Barack Obama si è appannata. Pochi credono che la guerra afghana possa concludersi con un successo. Molti temono che il ritiro delle truppe americane dall’Iraq renderà il paese ancora più ingovernabile. E pochissimi pensano che un anno basti a risolvere la questione palestinese. Obama potrebbe rispondere, con ragione, che quasi tutte le maggiori crisi internazionali degli ultimi mesi sono un retaggio della presidenza di George W. Bush. Ma i suoi critici gli rimproverano di avere fissato scadenze poco realistiche e dato prova di arroganza intellettuale.

Vi è una parte del paese, beninteso, che gli riconosce il merito di avere vinto le resistenze dell’America conservatrice e costretto il Congresso ad approvare una riforma sanitaria che garantisce a 16 milioni di americani una protezione di cui erano completamente privi. E vi sono quelli che non dimenticano la rapidità con cui, pochi mesi dopo il suo ingresso alla Casa Bianca, riuscì a salvare le banche dal collasso e a rimettere in sesto, con una forte iniezione di fondi pubblici, l’industria automobilistica. Ma ecco scendere in campo i liberisti e i «mercatisti», pregiudizialmente ostili a qualsiasi intervento della mano pubblica. A rendere la vita di Obama ancora più complicata ha contribuito negli scorsi mesi una sorta di duello ideologico fra coloro che lo accusano di avere aumentato il debito e coloro che lo esortano a favorire i consumi senza prestare troppa attenzione agli equilibri finanziari. Sono posizioni estreme, forse egualmente

sbagliate, ma entrambe colpiscono Obama e lo rendono meno credibile.

Che nella battaglia contro Obama vi siano un pregiudizio ostile e un uso strumentale di vicende imputabili alla Casa Bianca è dimostrato dalla crisi del Golfo del Messico. L’esplosione di una piattaforma petrolifera andrebbe messa, se mai, sul conto di Bush e sulla sua politica delle trivellazioni facili. Ma Obama è parso freddo, insensibile, più incline ad accusare i petrolieri che a dimostrare sensibilità e compassione per i pescatori e gli agricoltori della Louisiana. Sembra che Obama sia diventato il capro espiatorio di tutto ciò che va storto nel paese, indipendentemente dalle sue reali responsabilità. Non credo che all’origine di queste campagne vi siano sempre e soltanto i repubblicani e le prossime elezioni di Midterm. Il vero nemico del presidente è un fronte populista che si identifica solo parzialmente con l’opposizione. Obama non piace perché è un intellettuale progressista, giunto alla politica dalle austere aule dell’Università di Chicago e, forse, perché non appartiene al «mainstream», al midollo bianco, protestante, evangelico della classe media degli Stati Uniti. Il colore della pelle, l’educazione in una scuola musulmana, la sua religiosità compassata e certe propensioni all’intervento dello stato fanno di lui, agli occhi dell’America profonda, una sorta di alieno.

Il fronte populista non ha ancora un leader. Sarah Palin e il conduttore televisivo della Fox Shepard Smith sono soltanto tribuni della plebe, più adatti a infiammare gli animi delle masse che a dirigere un movimento politico, ma possono riempire le piazze e sanno dare voce al malumore di coloro per cui la vittoria di Obama è un errore da correggere il più rapidamente possibile. Obama ha di fronte a sé una metà del primo mandato e può ancora rovesciare la situazione. Ma ha bisogno di qualche successo nella politica economica e in quella internazionale. In caso contrario la vittoria di un presidente nero sarà soltanto una breve parentesi nella storia politica degli Usa.

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