Figures Hide the American Tragedy

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Niente da fare». «Comincio a crederlo anch’io». Le battute iniziali di Estragone e Vladimiro, i due anti-eroi di «Aspettando Godot», illustrano perfettamente la situazione economica americana. La banca centrale, il presidente Obama e il Paese intero si sarebbero dovuti rallegrare questa settimana quando gli esperti governativi hanno finalmente dichiarato la fine ufficiale della recessione 2007-2009.

Lunedì, il Comitato per la Datazione dei Cicli Economici (un nome di cui Beckett e Kafka sarebbero stati fieri…) ha deciso che il periodo di flessione economica iniziato nel 2007 è finito a giugno dell’anno scorso. Il che significa che l’economia più grande del mondo è in ripresa da più di un anno – un fatto che un Presidente alla ricerca disperata di voti per le elezioni di mid-term e una Federal Reserve desiderosa di rispondere ai suoi critici non si sarebbero dovuti far scappare.

Ma invece dei fuochi d’artificio, le ragazze pon pon e Madonna che canta l’inno nazionale in diretta sulla Cnn, Washington ha risposto ad un annuncio che sarebbe dovuto essere la fine di un periodo nero con un silenzio spettrale. Il motivo è semplice: la ripresa in America non c’è o se c’è non si vede. E né governo né Fed possono fare granché per stimolarla. Un’analisi troppo pessimista? Il solito giornalista che si innamora delle brutte notizie perché fanno più scalpore? Guardiamo i fatti. Stando alle stime ufficiali, la recessione che abbiamo appena vissuto è stata la più lunga dai tempi della Grande Depressione degli Anni 30.

In 18 mesi d’inferno, più di sette milioni di persone sono state licenziate mentre il prodotto interno lordo è crollato del 4 per cento (quattro volte di più che nella recessione degli Anni 90, per esempio). La disoccupazione, il crollo dei prezzi delle case, e la mancanza di uno Stato sociale decente hanno fatto sì che il patrimonio netto dell’americano medio sia crollato di più del 20 per cento. Per avere un’idea degli effetti psicologici di una tale distruzione di ricchezza, prendete il vostro conto in banca, dividetelo per cinque e sottraete quella cifra dal totale. Ora pensate al futuro vostro e dei vostri cari: paura?, paranoia? disperazione? – tutti sentimenti che hanno attanagliato milioni di americani nell’ultimo anno e mezzo.

Obama parla di speranza, Ben Bernanke, il capo della Fed, promette nuovi stimoli e le banche continuano a dire che i soldi per i prestiti ci sono. Ma la realtà è che per la gente comune, la Grande Recessione del 2007-2009 è stata una tragedia immensa e inaspettata. I dati economici non la dicono nemmeno tutta. L’ultimo censimento della popolazione americana ha rivelato che 4 milioni di persone sono cadute in povertà nel 2009, portando il totale a 44 milioni. Nel Paese dove tutti vogliono l’iPad, i ristoranti servono porzioni enormi e il governo spende centinaia di miliardi in guerre lontane, un cittadino su sette vive con meno di $10.830 dollari l’anno – il reddito minimo per non essere considerati poveri. Per i bambini, le cifre sono ancora più gravi: uno su cinque vive in condizioni d’indigenza.

In questa America grassa, potente e arrogante, ogni neonato ha una fiche da giocare sulla roulette della vita in cui c’è una probabilità del 20 per cento di perdere tutto. Vista la situazione, non è un caso che la Casa Bianca e la Fed non abbiano scritto comunicati stampa trionfalistici per celebrare la fine della recessione. Come ha detto un anziano signore a Obama durante un incontro tra il Presidente e la gente comune, «a dirle la verità, sono esausto. Sono esausto di difendere lei, la sua amministrazione e gli slogan di cambiamento per cui ho votato. Sono molto deluso dalla situazione». Delusione ed esaurimento – due condizioni che non si addicono all’America rampante degli anni del boom, l’America dell’ottimismo e degli immigrati, delle luci di Hollywood e dei banchieri ingelatinati di Wall Street.

La Grande Recessione ha spinto questo Paese verso l’abisso e non sarà facile risalire la china. Anche la storia non sembra essere dalla parte di una ripresa repentina. In passato, a crolli economici seguirono periodi di crescita altissima, il frutto di un rimbalzo quasi naturale nelle attività di aziende e i consumatori. Questo effetto yo-yo – astinenza seguita da ingordigia – non si è materializzato questa volta, in parte perché la recessione è stata più lunga e più severa. Il mio amico Neal Soss, un veterano dell’analisi economica che ora lavora per Crédit Suisse, spiega l’anomalia con un giochino di parole: «Abbiamo evitato la Grande Depressione ma abbiamo una deprimente ripresa».

Per spiegare la situazione ci vogliono gli psicologi, non gli economisti. Le attività produttive sono in atrofia, anche quando i soldi ci sono, perché il Paese è traumatizzato dalla recessione. Le società americane si tengono circa 1.800 miliardi di dollari nelle loro casseforti – un record assoluto – ma hanno paura di investirli in infrastrutture o acquisizioni di altre aziende. E i consumatori, anche quelli benestanti, stanno imitando i giapponesi-formichine, risparmiando ogni centesimo invece di spenderlo. Ma se il problema è davvero psicologico, i signori di Washington possono fare ben poco, soprattutto quando i tassi d’interesse sono già bassissimi, il governo ha speso 780 miliardi di dollari per stimolare l’economia senza grandi risultati, e le elezioni di novembre paralizzeranno l’attività legislativa per mesi. L’economia americana probabilmente eviterà il temutissimo «doppio tuffo» – la ricaduta nella recessione – ma ci vorrà del tempo prima che ritorni a navigare con il vento in poppa. Per ironia della sorte, lo stesso giorno in cui il governo Usa ha determinato la fine della recessione, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha predetto che il tasso di disoccupazione americano rimarrà elevato fino al 2013. L’occupazione è la trave portante della ripresa: senza lavoro, i consumatori non consumano e le aziende non possono produrre più di tanto.

Se l’Ocse ha ragione, ci vorranno almeno due anni prima che l’economia americana si liberi del retaggio della recessione. I politici e i banchieri fanno bene a ricordarci che sarebbe potuto succedere di peggio, che senza gli interventi massicci del governo in settori come la finanza e le automobili staremmo vivendo in una replica della Depressione. La stasi economica del 2010 è senz’altro meglio della crisi del 1930. Ma il ristagno di un Paese che è solito dominare e trainare il resto del mondo non è una condizione positiva, soprattutto per i 44 milioni di poveri. Estragone e Vladimiro lo sanno fin troppo bene: aspettare qualcuno, o qualcosa, senza sapere se e quando arriverà, fa male allo spirito.

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