Now the U.S. Treasury Dreads Its Own Default

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“Default”, bancarotta. Mai in passato un segretario al Tesoro degli Stati Uniti aveva osato evocare questo rischio per l’economia più ricca del pianeta: la sua. Lo ha fatto Tim Geithner (nella foto) ieri, usando la parola tabù in una lettera ufficiale inviata al Congresso.

Nelle stesse ore in cui il massimo responsabile del bilancio americano osava pronunciare l’impensabile, l’euro si è indebolito anziché rafforzarsi sul dollaro: a conferma che nel confronto tra malati, l’Eurozona è perfino più fragile degli Stati Uniti.

Nuove rivelazioni intanto confermano il ruolo cruciale della Cina per tamponare gli Stati europei più fragili. Pechino si appresta a comprare 6 miliardi di euro di titoli del debito pubblico spagnolo per impedire che Madrid sia “la prossima della lista” dopo Grecia e Irlanda. Se il 2011 dovesse essere l’anno segnato da qualche bancarotta sovrana, nonostante le sue floride finanze anche la Repubblica Popolare cinese è esposta a perdite consistenti, sulle riserve investite nelle valute altrui.

La lettera di Geithner ha dei passaggi che fanno tremare. Nel caso che il Congresso non approvi rapidamente una legge per alzare il tetto legale del debito federale, autorizzando così il Tesoro a emettere più titoli per finanziarsi, “il danno sarebbe catastrofico, la solidità dei buoni del Tesoro sarebbe a rischio, così come il ruolo del dollaro come moneta di pagamenti internazionale”. Vista la “gravità delle sfide per gli Stati Uniti e le altre economie mondiali”, avverte ancora il ministro, “la fiducia dei mercati mondiali nella nostra solvibilità finanziaria è cruciale”.

Nella drammatizzazione del rischio-bancarotta gioca anche un elemento tattico. Si è appena insediata a Washington la nuova Camera dei deputati, dove i repubblicani hanno la maggioranza. La destra vuole tenere in ostaggio l’Amministrazione Obama, negando i voti necessari per emettere nuovi buoni del Tesoro. “Il popolo americano – dichiara il nuovo presidente della Camera John Boehner – non accetterà un aumento del debito, se non è accompagnato da drastiche azioni per tagliare le spese pubbliche che uccidono posti di lavoro”.

Per certi versi è un “déjà-vu”. La destra persegue la strategia reaganiana “affamare la bestia”: negare risorse allo Stato, per smantellare tutto l’edificio del Welfare State considerato come il nemico numero uno. E’ la stessa destra che si è data i “20 giorni” per abrogare tutte le riforme di Barack Obama, inclusa la sanità. Il presidente democratico messo in minoranza alla Camera – come Bill Clinton nel 1994 – reagisce al ricatto denunciando il gioco al massacro. Nello stallo può succedere che tutti gli uffici dell’Amministrazione federale vengano chiusi per mancanza di risorse, proprio come accadde per alcune settimane nel 1995.

Oggi però la schermaglia tattica avviene su uno sfondo immensamente più fragile, rispetto agli anni Novanta. La soglia di debito pubblico che Washington sta per sfondare – pari a 14,3 trilioni ovvero 14.300 miliardi di dollari – vale il 99,3% del Prodotto interno lordo degli Stati Uniti. Il deficit corrente è il 10% del Pil. Un livello allarmante, mai raggiunto dalla seconda guerra mondiale. Ai livelli dei Pigs.

Fanta-politica, una bancarotta americana? Ma è proprio nella politica che ci sono i germi di un’instabilità che può improvvisamente creare il panico tra gli investitori. La destra Usa ha al suo interno delle correnti fondamentaliste che arrivano a invocare l’Apocalisse del crac finanziario nazionale, come una sorta di catarsi per espiare i peccati dello statalismo.

Ecco cosa scrive John Tamny, autorevole economista del Cato Institute, un think tank che fa da trait-d’union fra il neoliberismo reaganiano e il Tea Party di oggi: “E’ ora che impariamo ad amare l’idea di una bancarotta sovrana degli Stati Uniti. Quegli americani che temono un’insolvenza del Tesoro, sono come i genitori di un eroinomane, che paventano il momento in cui lo spacciatore smetterà di vendere la droga al loro figlio”.

Bruce Bartlett, un economista moderato che denuncia queste farneticazioni, è costretto ad ammettere: “Molti integralisti della destra s’illudono che basti non alzare il tetto legale del debito, e d’incanto lo Stato sarà costretto a ridmensionarsi. Da quando questi fanatici sono entrati al Congresso la prospettiva di un default degli Stati Uniti, per quanto resti improbabile, non è più impossibile”.

Ci sono varianti “minori” di questo scenario. La crisi della finanza locale è ancora più grave rispetto ai problemi di Washington, per le rigidità fiscali delle costituzioni nei singoli Stati. Una bancarotta della California farebbe saltare i rimborsi sul debito pubblico di un’economia più ricca dell’Italia. In quanto al Tesoro federale, la sua salvezza finora poggia sul dollaro. Washington ha ancora il privilegio imperiale di stampare una moneta che il resto del mondo accetta, sia pure a malincuore.

E’ il signoraggio che manca all’Eurozona. Perciò, se il 2011 dovesse essere l’anno di una bancarotta sovrana, i mercati scommettono che questo accadrà prima in Europa. E perfino l’interessata generosità della Cina non sarebbe un salvagente miracoloso.

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