C’è un dato, per noi inquietante, che accomuna fenomeni diversi tra loro come la caduta di Ben Ali in Tunisia, le rivolte anti-Mubarak in Egitto, la crisi del governo Hariri in Libano e le difficoltà di Habu Mazen dopo la divulgazione dei «Palestinian files».
Questo dato comune non va ricercato nelle cause, ma nelle conseguenze di questi eventi, ed è descrivibile come la repentina perdita di «egemonia» americana sul Mediterraneo meridionale e orientale, che rischia di avvenire attraverso la sostituzione di regimi e governi filo-occidentali con regimi e governi anti-occidentali. Se continua di questo passo, è possibile che in pochissimo tempo gli Stati Uniti si ritrovino ad avere nella regione un pugno di alleati, assai scomodi (sia pure per ragioni diversissime, come Israele o l’Arabia Saudita) o praticamente irrilevanti o fragilissimi (i vari Emirati e la Giordania). E tutto ciò fa aumentare le probabilità che, nel nuovo quadro strategico, un conflitto arabo-israeliano diventi quasi inevitabile.
È l’Egitto che in questo momento desta maggiori preoccupazioni. Il regime di Mubarak appare decisamente in affanno: dopo gli attentati anticristiani a cavallo dell’inizio dell’anno, e le seguenti manifestazioni di protesta dei copti, la tensione è nuovamente tornata a divampare, sull’onda dei successi conseguiti dalla rivolta tunisina. Ancorché i Fratelli Musulmani abbiano dichiarato di non essere alla guida della protesta, a Suez come ad Alessandria o al Cairo, la folla si è scontrata con le forze di polizia al grido di «Allah akbar!». L’organizzazione islamista, esclusa fraudolentemente dalle elezioni politiche di novembre, sarebbe del resto la principale beneficiaria di un eventuale tracollo del regime. Può darsi che, grazie al puntello determinante offerto dalle forze armate, Hosni Mubarak riesca a restare in sella, ma è quasi impossibile che a succedergli sia il figlio. La Casa Bianca, dal canto suo, ha un bel garantire «l’appoggio americano a quanti manifestano pacificamente per la libertà in Tunisia e in Egitto». La verità è che la caduta del regime significherebbe per l’America la perdita del più importante alleato nel mondo arabo, con conseguenze drammatiche per l’intero quadro mediorientale. Se i Fratelli Musulmani dovessero arrivare al potere al Cairo, infatti, difficilmente continuerebbero a partecipare all’isolamento internazionale di Hamas (che proprio ai «Fratelli» si richiama). La periclitante posizione di Abu Mazen si farebbe sempre meno sostenibile e la stessa «pace fredda» con Israele potrebbe essere rimessa in discussione.
Il nervosismo israeliano è poi acuito dall’assistere all’irresistibile ascesa al potere in Libano dei propri «arcinemici» di Hezbollah. Con l’incarico di formare un nuovo governo assegnato al filosiriano Najib Mikati (al posto del filo-occidentale Saad Hariri), sembra chiudersi, almeno per ora, la stagione di speranze inaugurata con la «Rivoluzione dei cedri» nel 2005. Da allora, il Libano era tornato a essere molto vicino a Washington e a Parigi, nonostante il breve ma devastante conflitto con Israele nel 2006 e la crescita di importanza di Hezbollah nel panorama politico interno. Tutto questo potrebbe essere già un ricordo. E le responsabilità americane nell’aver contribuito a «perdere il Libano» non sembrano essere insignificanti. La posizione dogmatica degli Usa sul Tribunale speciale per il Libano (incaricato di fare luce sull’omicidio di Rafik Hariri) ha finito per condizionare i diversi governi libanesi che, per continuare a ottenere l’aiuto americano, hanno dovuto mantenere una posizione rigidamente pro-Tsl, nonostante il quadro politico interno lo consentisse sempre meno e illudendosi che l’appoggio Usa sarebbe stato determinante per tenerli in vita.
Mai calcolo è stato più sbagliato. Di fatto, il dogmatismo degli Usa ha concorso a radicalizzare lo scontro politico interno, producendo così la situazione più favorevole a Hezbollah. Ora gli Usa già minacciano di tagliare gli aiuti e la collaborazione economica con Beirut, nel caso che l’esecutivo Mikati dovesse essere varato e si appresterebbero a imporre sanzioni nei confronti del Libano qualora il Tsl dovesse richiedere l’incriminazione di esponenti di Hezbollah e il nuovo governo libanese dovesse opporvisi. Una politica suicida, che semplicemente rafforzerebbe l’influenza di Siria e Iran sul Paese. Nel frattempo tutti si chiedono quanto Israele potrebbe accettare una situazione del genere senza essere tentato da una nuova, meglio preparata e più spietata, campagna libanese. Uno scenario già di per sé inquietante, che diventerebbe semplicemente un incubo, immaginando un Egitto senza Mubarak e una Palestina senza Abu Mazen.
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