The Deluded Western World Thinks It Counts for Something

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L’Occidente si illude di contare

L’Occidente si illude di contare

Barack Obama sarà ricordato come un nuovo Jimmy Carter, il presidente che «perse» l’Iran, che subì la rivoluzione khomeinista del 1979? Forse, ma l’ironia sta nel fatto che se questo sarà il suo destino, non sarà lui a forgiarlo, non dipenderà da lui. Dipenderà da come evolverà la situazione in Egitto e negli altri Paesi mediorientali in ebollizione. Nonostante tanti commenti che in Occidente sostengono il contrario, è davvero poco ciò che l’America, per non parlare dell’Europa, può fare in questo frangente. Il destino dell’Egitto è in larghissima misura alla mercé delle scelte che prenderanno, in risposta ai moti popolari, gli attori egiziani che contano. Più che «auspicare » e «suggerire» (e tenere incrociate le dita) gli occidentali non possono fare. Per aver chiara quale sia la reale capacità di incidenza dell’America basti pensare al Pakistan: sia sotto Bush che sotto Obama l’America lo ha ricoperto di dollari senza però mai ottenere che esercito e servizi segreti pachistani smettessero di appoggiare i talebani.

È un aspetto della sopravalutazione delle capacità di controllo degli eventi da parte degli occidentali anche la discussione sulla mancata previsione di cosa stava accadendo. Che «prima o poi» le dittature, anche quelle che sembrano più solide, cadano, è inevitabile. Ma nessuno può pronosticare quando prima e quando poi. Molto spesso le dittature hanno una vita lunghissima. Non raramente sopravvivono anche alle crisi di successione.

L’unica cosa che, in termini molto generici, si poteva prevedere, e che difatti era stata ampiamente prevista, è che la crisi economica mondiale avrebbe alla lunga destabilizzato, qua e là, diversi regimi dittatoriali. La ragione è semplice: le dittature si garantiscono la stabilità «pagando in contanti» l’acquiescenza, distribuendo a cascata risorse a settori strategici della popolazione (è anche la ragione per la quale in quei regimi lo Stato è massicciamente presente nella economia). La crisi mondiale, riducendo il flusso di risorse, aveva ottime probabilità di gonfiare in diversi luoghi malcontento e opposizione facendo emergere per di più il peso della corruzione.Ma nessuno (nemmeno gli specialisti, gli studiosi dei singoli Paesi) era in grado di dire dove e quando sarebbero esplose proteste così forti da far cadere il regime. La slavina, partita dalla piccola Tunisia, ha investito l’Egitto, ma anche altri Paesi, come Algeria, Giordania, Yemen, sono coinvolti. Poiché l’Egitto è il più importante Stato dell’area, è sull’intero Vicino e Medio Oriente che la sua evoluzione interna inciderà. Il mondo occidentale vive questi eventi in preda a una profonda incertezza. Il Medio Oriente è da sempre il suo nervo scoperto, il suo tallone d’Achille: perché lì c’è Israele, perché lì c’è il petrolio, perché lì ci sono alcuni fra i suoi più inflessibili nemici. Se l’auspicio degli iraniani si realizzasse, se le forze dell’islamismo radicale prevalessero nei principali Stati dell’area (che accadrebbe il giorno in cui quelle forze riuscissero a vincere in Arabia Saudita?) sarebbe per tutti noi un disastro di proporzioni inimmaginabili.

Se si può fare poco per condizionare gli eventi, che almeno quel poco non consista di plateali errori. Obama ne ha già fatti quando, in polemica con la politica del suo predecessore, ha demoralizzato gli oppositori democratici del regime di Mubarak e di altre dittature mediorientali, togliendo ai gruppi interessati alla democrazia appoggio morale e finanziario. È evidente che una democratizzazione dell’Egitto e di altri Paesi dell’area è auspicabile. Non solo perché le persone vivono molto meglio nelle democrazie che nelle dittature. Anche perché le democrazie stabili (se e quando riescono a diventare stabili), a meno che non debbano lottare per la sopravvivenza, non esportano, in genere, troppa aggressività. Ma la democratizzazione è un processo difficilissimo. Può finire nel caos. Oppure, attraverso la democratizzazione, possono arrivare al potere forze illiberali (Hamas vinse regolarmente le elezioni a Gaza). In un contesto esplosivo come il Medio Oriente l’avvento di democrazie illiberali non significa pace ma guerra e catastrofi. L’incertezza occidentale ha dunque buone giustificazioni.

Tra gli errori che bisognerebbe evitare c’è anche quello di cadere nelle trappole propagandistiche che vengono tese da chi ha interesse a confondere ancor di più il già confuso mondo occidentale. È già cominciata sui mass media una operazione pubblicitaria tesa a «vendere» i Fratelli musulmani come un interlocutore tutto sommato accettabile per noi. In fondo, si dice, a differenza di Al Qaeda, non mettono (più) bombe. Ma il fatto che non mettano più bombe, che abbiano da tempo rinunciato alla violenza, non ne fa affatto un interlocutore. Ideologicamente non sono diversi da Al Qaeda e una loro vittoria finale in Egitto (possibile — esercito permettendo — essendo la Fratellanza l’unica forza politica ramificata e organizzata della società egiziana) configurerebbe precisamente un esito illiberale in grado di spostare in senso antioccidentale l’asse dell’intero Medio Oriente.

Se alla fine, sciaguratamente, prenderanno il potere o avranno comunque una forte influenza su di esso, bisognerà per forza cercare di venirci a patti. Ma, almeno, evitiamo di insultare la nostra intelligenza accettando di considerarli una «forza democratica » o giù di lì.

Gli esiti della trasformazione in corso incideranno sugli equilibri mondiali. A cominciare dai rapporti fra Stati Uniti ed Europa. Se gli esiti saranno positivi, se, ad esempio, il post Mubarak si risolverà in una transizione controllata verso un assetto stabile e meno opprimente del regime oggi in crisi, tutto bene. Ma se dovessero vincere in Egitto e altrove forze islamiche radicali, è facile scommettere che fra America ed Europa crescerebbero incomprensioni e divisioni. Nonostante l’oscillante Obama, l’America dovrebbe per forza scegliere una linea di contrasto. Per fare quadrato in difesa di Israele e per difendere i propri interessi strategici. L’Europa, che ama poco Israele, e che è debole e spaventata, faticherebbe assai a seguirla.

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