U.S. Right Wing That Challenges Obama without the Tea Party

Edited by Amy Wong
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Se questa non fosse la Destra, sembrerebbe la Sinistra. Si raccolgono da oggi a Washington, nella cavernosa sala da ballo di un albergo, le forze confuse e rissose di un partito, quello repubblicano, eccitato dalla vittoria nelle elezioni parlamentari dello scorso novembre, ma ancora in cerca di un autore e di un motivo per stare insieme che non sia il disprezzo e l’ odio per Barack Obama. Un movente che bastò a rovesciare la maggioranza alla Camera, ma potrebbe non essere più sufficiente fra due anni, se la lenta, ma sicura ripresa dell’ economia nazionale, e quindi la risalita e stabilizzazione nella popolarità nazionale, riportassero al voto i milioni di incerti e di disgustati elettori democratici che quattro mesi or sono rimasero a casa. È la trentottesima kermesse del Cpac, il comitato d’ azione (e di finanziamento) dei conservatori americani dilaniati fra gli orfani del reaganismo e i nuovi attivisti antipolitici del Tea Party, fra i superstiti di trombature elettorali e nuovi leoni e leonesse, tra libertari che sognano di abolire la banca centralee banchieri che invece alle banche tengono moltissimo. È una sagra della destra alla quale, secondo la classica formula del “mi si nota di più se non mi presento” mancherà la reginetta dei ghiacciai, quella Sarah Palin rimasta sdegnosamente nella sua Alaska a fare, come dice quando non vuole misurarsi con il resto del mondo, «la mamma» dei suoi cinque figli. Poiché in politica è sempre più facile opporsi che proporre, ora i pretendenti allo scettro di leader delle forze conservatrici per il duello del 2010 devono battersi fra di loro, senza risparmiarsi colpi bassi. Saranno almeno quaranta, un calvario di retorica e di pisolini nel buio tiepido del salone, gli uomini e le donne che si succederanno per tre giorni sul podio della ballroom dell’ hotel Marriott, per conquistare il sostegno di questo “Comitato di Azione” che funziona da polmone politico e finanziario dei repubblicani. Dovevano essere soltanto trentanove, ma all’ ultimo momento, prova della confusione e del “liberi tutti”, si è autoinvitato il divo dell’ immobiliare e dalla tv Donald Trump che sta, di nuovo, flirtando con l’ idea di candidarsi alla Presidenza, l’ ultimo giocattolo che ancora manca alla sua collezione. Maè l’ antiobamismo il solo terreno sul quale si ritrovino, per strappare l’ applauso, il cotonato e ritinto miliardario con il ciuffo; la “pasionaria” della destra più ringhiosa Michelle Bachman; il moderato Mitt Romney, già governatore del Massachussets sconfitto nelle eliminatorie del 2008 perché troppo “progressista”; il popolare “Duo Paul”, Ron e Rand, padre e figlio che chiedono a nome dei ribelli del tè la demolizione del governo centrale e dell’ agenzia delle imposte; il redivivo, pluritrombato e sessantottenne Newt Gingrich, autore negli anni ‘ 90 di quel «Contratto con l’ America» che fu prontamente scimmiottato anche in Italia; e l’ ex governatore del Minnesota Tom Pawlently, divenuto l’ alfiere di quella destra cristiana anti- gay, anti-aborto, anti-matrimoni unisex, che dà segnali di ritorno sulla scena politica dopo l’ eclissi degli ultimi quattro anni. Oltre il confine di questo scontato unanimismo di antiobamismo, di allergie fiscali e di obbrobrio per la riforma sanitaria, il terreno sotto la “Grande Tenda” del partito, come i repubblicani amano descriversi, si fa sdrucciolevole e fangoso. La Palin, come il reverendo Huckabee che piacque a molti nella corsa del 2008, si sono chiamati fuori, e si stanno preparando a riesumare quel tema del kulturkampf, della lotta sui «valori tradizionale» (leggi: antigay) contro il materialismo relativista dei democratici che potrebbe essere il fattore unificante, ora che la “minaccia islamica”, la “guerra al terrore” e la recessione rischiano di perdere molta della loro presa. Altre parrocchie fieramente conservatrici, ma non schierate con il partito del tè, come la Heritage Foundation, serbatoio di cervelli austeramente reazionari, si sono chiamati fuori e le organizzazioni, sempre più influenti, dei repubblicani che chiedono uguaglianza di diritti per gli omosessuali non si sono presentate. Ruderi e stelle spente di passate guerre, come Rick Santorum, già esaltato combattente per i valori cristiani quando era senatore e poi sonoramente sconfitto nella corsa al governatorato della Pennsylvania, bisticcia a distanza con la Palin, accusandola di «nascondersi dietro la famiglia», ricevendo in cambio dalla piccata reginetta dei ghiacciai e oggi del teleschermi la definizione molto protofemminista di «Uomo di Neanderthal». Chi emergerà da questo brodo primordiale della destra americana, se il governatore del New Jersey Chris Christie, uno dei favoriti nella corsa lunga, che ha esperienza di gestione di uno stato importante, o uno dei neo “pazzarielli” del Tea Party che stentano a riconoscersi sotto la tenda dei vecchi marpioni della politica politicante, come il giovanissimo Marco Antonio Rubio, sangue caldo cubano della Floridae grande carisma, è la domanda alla qualei Repubblicani dovranno rispondere. E dovranno farlo più rapidamente di quanto possa far credere il calendario. Mancano ancora 20 mesi al 6 novembre del 2012, data delle elezioni presidenziali, e sembra un lungo tempo, ma non lo è. Fu proprio in un giorno di febbraio del 2007, dunque alla stessa distanza dal voto del 2008, che un uomo salì sui gradini gelidi della città di Lincoln, Springfield nell’ Illinois, per annunciare che avrebbe puntato alla Casa Bianca. Il suo nome era Barack Obama.

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