Barack Obama rompe il silenzio sulle «inaccettabili violenze» in Libia svelando due priorità: evitare una crisi degli ostaggi a Tripoli e arrivare a una risposta multilaterale alla crisi.
Rispondendo ai grandi media che accusavano la Casa Bianca di essere «muta davanti alle stragi» il Presidente americano ha parlato dal Grand Foyer della Casa Bianca, con a fianco il segretario di Stato Hillary Clinton, per smentire l’immagine di un’America con il doppio standard: protagonista della transizione in Egitto ma indifferente alle stragi in Libia.
«La priorità per ogni nazione è garantire la sicurezza dei propri cittadini» ha esordito Obama, riferendosi agli oltre cinquemila americani che aspettano sui moli di Tripoli di imbarcarsi su traghetti affittati a Malta. Si tratta di un esodo di stranieri – ci sono anche cittadini di altre nazionalità – che potrebbero diventare ostaggi in qualsiasi momento. Diplomatici e militari americani lo stanno gestendo in gran segreto, con la collaborazione di Paesi alleati, trattando con le autorità della capitale, che ancora rispondono al Colonnello. Non è chiaro perché i traghetti ancora non lascino il porto a ridosso della Piazza Verde ma fino a quando ciò non avverrà Obama avrà le mani legate.
Con il timore di essere obbligato a gestire una crisi degli ostaggi di dimensioni ben superiori a quella dei diplomatici detenuti nell’ambasciata di Teheran nel 1979 che travolse la presidenza di Jimmy Carter.
Riguardo alla soluzione della crisi libica il Presidente parla di «opzioni nazionali e multilaterali allo studio» sottolineando l’importanza che «la comunità internazionale parli con una voce sola» e plaudendo alle unanimi prese di posizione contro le violenze giunte da parte di Lega Araba, Unione Europa, Organizzazione della conferenza islamica e Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Se l’inviato Bill Burton è in partenza per il Nordafrica e Hillary si recherà al Consiglio dei Diritti Umani a Ginevra è perché la Casa Bianca punta a trovare una risposta internazionale alla crisi, a differenza di quanto fatto in Egitto dove tenne le redini del rapporto con Hosni Mubarak.
Al Palazzo di Vetro l’ambasciatrice Susan Rice sta tentando di trovare un’intesa con i colleghi di Russia e Cina che vada oltre la formale dichiarazione di condanna approvata all’unanimità. Francia e Gran Bretagna, assieme agli altri europei, premono verso misure di aiuto umanitario nei confronti delle zone investite dalla repressione di Gheddafi, a cominciare da Bengasi, ma Pechino esita ad avallare ingerenze che potrebbero stabilire un precedente per crisi in altre aree, a cominciare dal Tibet. I negoziati sono delicati ma Washington è convinta che la coesione internazionale sia la strada più efficace per esercitare pressioni su Gheddafi, anche perché «molti Paesi hanno con la Libia relazioni molto più strette rispetto agli Stati Uniti» come sottolinea Hillary, con un riferimento indiretto a Gran Bretagna, Italia e Francia.
La necessità di guadagnare tempo per portare a termine l’esodo da Tripoli dà tempo alla diplomazia per tentare di trovare all’Onu una formula condivisa. Fra le ipotesi che si affacciano vi sono quelle già sperimentate per proteggere popolazioni minacciate dalle violenze: dalla creazione di «no fly zone» sui cieli della Cirenaica come avvenne sul Kurdistan iracheno dopo la guerra del Golfo del 1991, all’invio di «missioni umanitarie» come quella inviata ad Haiti nel 2004 grazie ad un’intesa fra Washington, Parigi e Brasilia. Quale che sia la formula destinata a emergere dalle consultazioni al Palazzo di Vetro, è verosimile che chiamerà in causa i Paesi più esposti al rischio di una nuova Somalia in mezzo al Mediterraneo, ovvero gli europei, a cominciare dall’Italia.
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