Va ora in onda Obama 2.0
di Christian Rocca
08 marzo 2011
Ma qualcuno ha letto il discorso del Cairo di Barack Obama? Il presidente americano certamente sì, avendolo anche scritto assieme al suo consigliere Ben Rhodes. Obama conosce così bene quel testo da sentire il bisogno di preparare un nuovo grande discorso al mondo arabo e islamico. Un discorso del Cairo 2.0 o, perlomeno, 1.5 come ha immaginato James Traub su Foreign Policy.
L’urgenza di un nuovo discorso è evidente: Obama sa che la politica mediorientale americana presentata al Cairo due anni fa è fallita, come peraltro avevano previsto a caldo i leader democratici egiziani da Ayman Nour a Saad Eddin Ibrahim.
Nei giorni scorsi alcuni commentatori americani si sono stupiti dell’eccessiva lentezza obamiana nell’abbracciare le rivolte popolari in Nord Africa e Medio Oriente. Il Washington Post e il New York Times si sono spinti fino a lodare la prontezza di riflessi dei leader europei, compreso Silvio Berlusconi, rispetto al distacco obamiano prima sull’Egitto e poi sulla Libia. La Casa Bianca, alla fine, si è schierata al fianco dei movimenti democratici, ma con juicio. Chi conosce il contenuto del discorso del Cairo non s’è meravigliato delle esitazioni iniziali di Obama.
La cautela mostrata davanti alle piazze nordafricane è la stessa che, nell’estate 2009, ha costretto il presidente americano a essere l’ultimo dei leader occidentali a condannare i brogli del regime teocratico di Teheran e le violenze degli ayatollah contro l’opposizione iraniana. La spiegazione di questa incertezza è nel discorso pronunciato al Cairo il 4 giugno 2009.
Al contrario di quanto si dice, specie sui giornali e nei talk italiani, Obama al Cairo non si è rivolto al popolo musulmano, alla piazza araba, ai bazar iraniani invitandoli ad abbracciare democrazia e libertà. Obama si è rivolto ai teocrati, ai despoti, agli ayatollah, ovvero ai regimi al potere da sessant’anni. Si è rivolto innanzitutto ai nemici dell’America, oltre che agli alleati.
Ospite di Hosni Mubarak, salutato alla vigilia come «una forza di stabilità», Obama è andato al Cairo a offrire la rinuncia americana al “regime change” e alle pressioni per le riforme liberali su cui George W. Bush aveva insistito dopo l’11 settembre. In cambio, Obama ha chiesto l’impegno degli autocrati arabi e islamici a non sostenere più il terrorismo, a non diffondere ulteriormente l’odio religioso e, nel caso iraniano, a fermare il programma nucleare. Questo è stato il senso politico del discorso del Cairo.
Obama non ha criticato i regimi autoritari. Non ha chiesto di riformare le società arabe e islamiche. Non ha incoraggiato le forze democratiche. Semmai ha tagliato del 50 per cento gli aiuti ai movimenti democratici egiziani e iraniani e del 70 per cento i finanziamenti alla società civile egiziana, mantenendo però l’assegno da un miliardo e trecento milioni di dollari annui per l’esercito di Mubarak.
Al Cairo Obama ha rivolto critiche a chi in occidente vieta l’uso del velo islamico e ha compilato l’elenco degli errori americani nella regione, ma non quello di aver sostenuto le dittature oggi delegittimate dalle piazze. Come tutti i presidenti americani, Obama ha anche parlato di democrazia. Ma in modo astratto.
La prima cosa che ha detto, ricordando gli anni di Bush, è stata che nessuna forma di governo può essere imposta da una nazione a un’altra, anche se i regimi democratici sono certamente più stabili e più sicuri. I giornali americani allora definirono la parte “democratica” del discorso come “Bush light”, una versione leggera dell’immaginifica retorica pro democracy del suo predecessore.
I conservatori si entusiasmarono per un particolare passaggio sull’Iraq, probabilmente sfuggito a chi oggi ricorda con commozione quel discorso: «Credo comunque che il popolo iracheno stia sostanzialmente meglio senza il tiranno Saddam Hussein».
Obama, insomma, è andato al Cairo a dire che lui non si sarebbe comportato come Bush, che l’invasione in Iraq è stata un errore da non ripetere, che l’America non avrebbe interferito negli affari interni dei regimi arabi e islamici in nome di un cambiamento strategico e di una politica estera accorta, pragmatica e realista.
Il progetto è fallito poche settimane dopo, nel modo più spettacolare: di fronte all’offerta obamiana, il regime di Teheran ha deciso di reprimere col sangue le richieste dell’opposizione di ricontare i voti espressi alle elezioni presidenziali. Gli ayatollah se lo sono potuti permettere anche perché la Casa Bianca aveva puntato sulla rinuncia all’interferenza negli affari interni di Teheran. La gente, nelle piazze di Teheran, intanto cantava: «Obama, o stai con noi o stai con loro».
Alla fine il presidente s’è accorto che non sarebbe stato ragionevole provare a far ragionare chi ragionevole non è. A poco a poco, la Casa Bianca ha mutato approccio con l’Iran, mettendo in naftalina la Realpolitik d’inizio mandato. Le rivolte nordafricane sono state l’ulteriore conferma dell’errore strategico compiuto al Cairo.
Ora i quotidiani americani raccontano di concitate riunioni alla Casa Bianca per preparare un cambio di strategia che tenga conto della nuova realtà anti-autoritaria del Medio Oriente. Nei fatti il cambiamento è già in corso, manca solo un’elaborazione ideologica, una soluzione che non faccia pensare a un ritorno a Bush e una comunicazione esterna coerente. Obama rinuncerà alla politica neo-kissingeriana d’inizio mandato, ma starà attento a non ripetere gli errori idealisti di Jimmy Carter (che in nome dei diritti umani consegnò l’Iran agli ayatollah).
La nuova dottrina di Obama, anticipata dal Wall Street Journal, è una via di mezzo, la sola pragmatica, l’unica possibile: fare pressioni democratiche sui regimi amici e aiutare i dissidenti a rovesciare quelli nemici. Non è una novità: più che il testo del Cairo 2009 andrebbe riletto il discorso d’inaugurazione del secondo mandato di George W. Bush del gennaio 2005. Lì c’è la nuova dottrina Obama e il prossimo discorso del Cairo.
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