Debolezza e indecisione: il presidente sembra non avere una strategia per il futuro. E gli alleati precipitano nel caos. Il leader Usa prima dice che Gheddafi se ne deve andare, poi che non bisogna usare la forza
La domanda da porsi è se il peggior Presidente degli Stati Uniti del dopoguerra sia stato Jimmy Carter o Barack Obama. Come Carter, Obama ha dato prova di debolezza e titubanza disastrose. Coniugando tali ‘doti’ con una notevole prosopopea retorica ha raggiunto livelli comici, per esempio nel celebre discorso del Cairo dove, con tono da salvatore dell’umanità, propose castronerie come l’attribuzione all’islam della scoperta della polvere da sparo e della stampa. Tanto generose concessioni sarebbero state perdonabili se accompagnate da un atteggiamento equanime e moralmente rigoroso. E invece no. Non si è udita la voce di Obama a proposito della scandalosa presenza di stati canaglia nel Consiglio dei diritti umani dell’ONU; né si è udita in occasione delle innumerevoli minacce iraniane di distruggere Israele. Neppure egli è intervenuto in modo deciso in occasione della feroce repressione dei moti popolari in Iran. Dietro un confuso farfugliare e una mediocre realpolitik non è emersa alcuna strategia. Però, quando si sono scatenati i moti in Egitto, Tunisia e Libia, Obama si è svegliato assumendo toni da capopopolo dell’islam. Ha chiesto perentoriamente l’avvento della democrazia, ha intimato all’alleato (fino a poche ore prima) Mubarak di farsi da parte. Se l’idea di Bush di impiantare la democrazia in paesi che non l’hanno mai conosciuta poteva essere avventata, pensare che l’avvento della democrazia possa essere garantito dal gioco dei movimenti spontanei, in ambiti in cui l’unica forza organizzata è quella dell’integralismo islamico, è avventurismo puro. Il 1˚ marzo, in un atto di ipocrisia collettiva la Libia è stata espulsa dal Consiglio dei diritti umani, come se fino al 28 febbraio avesse avuto le credenziali per farne parte e come se molti altri stati membri non meritassero lo stesso trattamento.
Ora Obama, mentre indossa idealmente un basco alla Che Guevara, da un lato dice che Gheddafi se ne deve andare, dall’altro che non deve essere mandato via con la forza. Egli partecipa all’intervento armato purché si limiti a qualche sculacciata. Questi impulsi contraddittori hanno aggravato la cronica incapacità decisionale dei paesi europei ormai in piena confusione di orientamento e di coordinamento. Non è chiaro fino a che punto e per quanto tempo gli USA vogliano andare avanti. Si interviene senza che sia chiarito il fine e senza elementi per decidere se il movimento ribelle può rappresentare una svolta positiva o far precipitare la Libia dalla padella nella brace. Al confronto la guerra irakena di Bush rappresenta un modello di chiarezza di obbiettivi e di coerenza dei mezzi impiegati. Eppure ormai la scomparsa di Gheddafi dalla scena è una necessità indiscutibile: l’idea che il raìs resti in sella, anche come interlocutore dimezzato ma pieno di rancori, configura uno scenario da brividi. Ma proprio circa la possibilità di conseguire questo obbiettivo nascono le più grandi perplessità.
L’unica cosa chiara è che tutti – e non solo l’Italia che non può per i precedenti storici – escludono l’intervento di terra. Ma non occorre essere von Clausewitz per sapere che nessuna guerra può concludersi senza una definizione della situazione sul terreno, pena il prodursi di uno stato endemico di conflitto di lunga durata con conseguenze devastanti, in particolare per il nostro paese che pagherebbe un prezzo ingiusto, come se l’acquiescenza nei confronti di crudeli dittature non fosse stata (e non fosse) una prassi comune a tutti i paesi occidentali.
In questo panorama desolante di crisi dell’occidente, aggravata dall’impasto didemagogia e debolezza della presidenza americana, si staglia il problema energetico reso evidente dal dramma giapponese. Sono quarant’anni che l’occidente elude la sfida di mobilitare la propria supremazia tecnologica per rendersi indipendente dal petrolio. Anche se la vicenda giapponese impone un esame delle condizioni di massima sicurezza nella costruzione di nuove centrali, non è sensato comportarsi in modo irrazionale. Perche non si parla dei danni colossali, anche in termini di salute, provocati da incidenti legati al petrolio come il disastro nel Golfo del Messico o l’inquinamento da idrocarburi? Ma c’è di peggio. La dipendenza dal petrolio ha contribuito a creare classi dirigenti islamiche aggressive, come quella iraniana, e a finanziare un terrorismo attivissimo, come dimostra l’attentato di ieri a Gerusalemme. Il petrolio ha comprato mezza Europa e parte degli Stati Uniti. Le celebri università inglesi si sono ridotte a centrali di propaganda antioccidentale, e in alcuni paesi europei le regole della democrazia liberale si adattano a convivere con quelle della sharia. La dipendenza dal petrolio è ormai causa ed effetto di questi processi drammatici. Ci si chiede quando verranno alla ribalta classi politiche capaci di guardare oltre la punta del naso e di gestire con decisione, lungimiranza e coniugando dignitosamente realismo e senso morale, un’evoluzione che può avere conseguenze epocali presto per l’Europa e poi per gli Usa.
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