13 aprile 2011
Il risveglio dal sogno americano
di Mario Margiocco
Abituati a misurarsi sul modello americano, speranza e rifugio da una storia tormentata, gli europei hanno qualche difficoltà a rispondere: oggi e per alcuni anni, sta meno peggio l’America o l’Europa? «Secondo la maggior parte dei parametri, la situazione dei conti pubblici degli Stati Uniti è peggiore dell’aggregato dell’area euro», cioè dell’insieme dei conti pubblici dell’eurozona, ricorda una recentissima pubblicazione della think tank brussellese Bruegel.
Lo studio a cura di Jean Pisani-Ferry, Adam Posen e Fabrizio Saccomanni della Banca d’Italia raccoglie gli atti di un convegno euro-americano su crisi e dopo-crisi (An ocean apart: Comparing transatlantic responses to the financial crisis). Non è poco, perché ancora oggi è il braccio pubblico che regge la finanza, dopo il 2008.
Gli Stati Uniti stanno peggio quanto a finanze pubbliche nonostante l’eurozona abbia i Pigs, il debito italiano, l’esplosione di quello francese e il caso spagnolo. Nel lungo periodo hanno ben più dell’Europa assi nella manica. Nel breve e medio, si stanno semplicemente giocando la cassa – e forse il dollaro – al tavolo da poker della politica.
Il debito pubblico -reale- americano supera i 20 mila miliardi di dollari e il 140% del Pil. Più pesante di quello italiano, quindi. I paesi dell’euro hanno, presi insieme, un debito pubblico (stati ed enti locali) pari all’83% del Pil. Anche il debito totale interno, pubblico e privato, è negli Stati Uniti molto più alto.
Sul debito pubblico americano circolano varie cifre, e una ancora usata indica il solo debito held by the public, residenti e non, persone fisiche e giuridiche, comprese le banche centrali straniere. Si arriva così a circa il 70 per cento del Pil. Ma manca da questo un 30% di Pil del debito intergovernativo, che tradizionalmente non si contava ma oggi sempre più si calcola, perché in parte notevole sono risorse non di Washington ma di pensionati e pensionandi. Manca anche un 20% del Pil (3mila miliardi) di debito locale, Stati e città, e un altro 20% almeno di debiti e garanzie a terzi delle megafinanziarie immobiliari pubbliche, Fannie e Freddie, che anche con il calcolo più benevolo non possono non incidere per altri 3 mila miliardi circa sui conti. Washington si ostina a non considerarle debito pubblico per poi subito riassicurare che sono pienamente garantite, come il debito pubblico. Se non lo fossero, dal 7 settembre 2008, accanto al fallimento di Lehman Brothers avremmo avuto due anni e mezzo fa anche quello delle casse pubbliche americane.
Legato al debito in qualche modo, c’è il guaio della finanza immobiliare. Gli Stati Uniti, in una decina di Stati, hanno una situazione di invenduto, pignoramenti, insolvenze di proporzioni mai viste. Vi sono quasi 12 mila miliardi di titoli immobiliari, fra mbs e altri titoli cartolarizzati (più 700 milioni di prestiti sulla casa spesso inesigibili). Per metà sono sparpagliati e garantiti da Fannie e Freddie, per 4,4 mila miliardi in pancia alle grandi banche, per 2,2 mila presso finanziarie varie. Non si sa quanto valgono. Il mercato immobiliare continua a scendere, i pignoramenti a crescere, e non è chiaro se alla fine bisognerà contare il 10 o il 20 o il 30% di perdite, con quel che segue per la stabilità di varie grandi banche. Che però ora sono garantite, too big to fail, dalla legge Dodd-Frank, cioè dal debito pubblico. Che a sua volta, si è visto, traballa.
Il guaio degli Stati Uniti, e il 2007-2008 lo ha solo aggravato, è che per una romantica scommessa sull’eccezionalismo americano, dagli anni 80 si va avanti con meno tasse, più spese e la certezza che la differenza la pareggia l’inesauribile America, con il suo genio creativo e il suo ottimismo. Ci ha provato l’ingegneria finanziaria, e ha fallito.
È la rapidità della crescita del debito americano che fa riflettere, da 5 mila miliardi a fine 2006 a 9 mila a fine 2010 per la sola quota «held by the public». Un aumento analogo di 4mila miliardi aveva richiesto, fino al 2006, un quarto di secolo e non quattro anni. La Fed con il quantitative easing, creazione cioè di moneta, sosterrà fino a giugno il debito con una sorta di polmone artificiale, acquistando tutte le nuove emissioni, insieme a titoli delle ineffabili Fannie e Freddie. Poi, si vedrà.
Ora, secondo Bill Gross, patron del gigante californiano del reddito fisso Pimco (proprietà Allianz), la ricetta Fed è quella di un “default strisciante” attraverso una “moderata” inflazione e tassi bassissimi che scaricano i costi sulla classe media. Secondo altri non è detto funzioni, perché metà del debito federale scade e va rinnovata (e accresciuta) in tre anni a partire dal gennaio 2011, troppo presto perché l’inflazione aiuti davvero il grande debitore.
Non è credibile che la soluzione venga dalla crescita in atto, più robusta che in Europa e benedetta da Dio, ma che vola con la trepidazione di un aereo vicino alla velocità di stallo, quella sotto la quale si perde quota. L’ex ministro del Bilancio di Obama, Peter Orszag, ha parlato di «US public debt tremors» sui mercati già forse quest’anno, e di una possibile vera crisi del debito dopo il 2011, se la politica non fa la sua parte. Di possibile situazione di pre-default dei conti americani hanno parlato anche altri, dal finanziere Roger C. Altman, potente notabile democratico, all’ex capo dei consiglieri economici di Obama, Christina Romer, a, nei giorni scorsi, il presidente della Fed di Dallas, Richard Fisher, che vota quest’anno nelle decisioni di politica monetaria, e critico di Bernanke quasi quanto il suo collega di Kansas City, Tom Hoenig.
Washington non è Atene e non è Dublino, e neppure è Roma, ma secondo i personaggi citati e numerosi altri una netta correzione di rotta alle linee fiscali imposta dai mercati internazionali è più che possibile. Anzi, inevitabile, se la classe politica americana non agirà prima. L’anziano Paul Volcker si interroga intanto sul ruolo del dollaro, e su che fine farà il principio di ordine che la moneta americana ha in vario modo rappresentato per quasi un secolo.
A Washington i repubblicani chiedono tagli di spesa così forti da fare male, ma non abbastanza per fare la differenza. Le imposte, per loro, sono tabù. Obama, che spesso ha taciuto o peggio sui costi della crisi e la realtà dei conti, aspetta che i repubblicani si facciano male, e gli elettori impauriti lo confermino nel 2012. Poi, si vedrà.
A Bruxelles e Francoforte (e Berlino), si deve far quadrare il difficile teorema di una ripartizione su tutti dei costi, mentre non tutti hanno speso male i loro talenti. Ma aiuta il fatto che pochi siano davvero innocenti, basti pensare ai guai di numerose banche tedesche.
A Washington la partita è più difficile. Probabilmente siamo oggi alle vere “tribolazioni di Giobbe” che l’America non ha mai sperimentato, quelle che mettono in causa e rivelano la vera identità, ora che il Sogno Americano per qualche tempo deve volare assai basso. Anche per l’Europa, che già ne ha di suo, è un problema da non sottovalutare, si chiami dollaro o spesa militare americana, o ruolo egemonico di un grande paese che il nation building per qualche tempo dovrà farlo in casa.
mmargiocco@gmail.com
13 aprile 2011
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