“La proposta repubblicana prevede uno sconto fiscale di $200000 per ogni Americano benestante, come me, pagato da $6000 tagliati alla previdenza di 33 di pensionati. Questo e’ fondamentalmente inequo e non avverra’ finche’ saro’ presidente”. E’ difficile sopravvalutare il valore delle parole di Barack Obama nel contesto dell’attuale recrudescenza conservatrice: il piano elettorale repubblicano iniziato con l’attacco concertato ai sindacati sara’ imperniato sulla demolizione del welfare state o cio’ che ne rimane. Tutto nel nome del rigore fiscale, sullo sfondo della crisi economica e del colossale debito pubblico del paese (14 mila miliardi di dollari). Nella retorica conservatrice i tagli alla spesa pubblica sono a virtu’ morale assoluta, manovra di audacia singolare vista la genesi della crisi: la speculazione selvaggia di banche e finanza che per tutta punizione hanno ricevuto giganteschi sussidi governativi. A fronte dell’assoluta impunita’ del liberismo fraudolento, la destra ha scelto lo scontro ideologico sui malefici delle spesa pubblica. Gli ideologhi dello stato minimo del Tea Party da un lato e l’ala corporativa dei repubblicani convergono nella demonizzazione di “big government”, spauracchio di ogni slogan: la soluzione finale per eliminare le ultime vestigia di New Deal. Ha un senso dunque per Barack Obama ribadire concetti che incredibilmente oggi non possono piu’ darsi per scontati. Lo fa citando Lincoln: ”Fieri individualisti, gli Americani accettano tuttavia di delegare allo stato i compiti che la collettivita’ assolve meglio dei singoli”. Il presidente difende le basi del patto sociale che i repubblicani intendono azzerare, e il realismo del suo disocrso di Washington sull’economia e’ una ventata fresca nell’imperante miasma populista. Obama spiega all’America della voragine sociale fra miliardari e una popolazione generale che arranca sempre piu’ faticosamente, il senso di una democrazia in cui i ricchi contribuiscono proporzionatamente all’erario, propone un aumento delle tasse sull’ 1% che detiene quasi la meta’ della ricchezza. E’ una bestemmia per gli evangelici antistatalisti, un’idea eretica la cui formulazione e’ altresi’ cruciale per inquadrare un’alternativa progressista alla demagogia acquisita a destra. Obama insiste, propone $400 milioni di tagli al sacrosanto e mastodontico budget militare la cui inviolabilita’ e’ somma ipocirisia dei risanatori repubblicani, difende pensioni, istruzione e previdenza come investimenti necessari contro le privatizzazioni paventate dai crociati del libero mercato come arbirtro sociale. Insomma delinea la risposta liberal all’attacco conservatore fondato su un darwinismo sociale non visto dai tempi dei robber barons di inizio secolo. Malgrado tutte le delusioni arrecate dalle promesse non mantenute, malgrado i compromessi troppo facilmente accettati, dalla riforma sanitaria a Guantanamo, malgrado perfino l’interventismo in Libia e l’escalation delle guerre sanguinose in Iraq e Afghanistan, e’ difficile sottovalutare l’importanza di verita’ profferite da un presidente americano che a Washington ha gettato le basi per una campagna di rielezione prevedibilmente aspra dicendo molte cose di sinistra. E sta ora in parte alla sinistra alzare al pressione politica su un presidente confrontato da una forte maggioranza d’opposizione al congresso . Un primo passo e’ la petizione del progressive change camapaign committee (PCCC) che al presidente-candidato ha intimato: “se permetterai tagli sociali dimenticati l’impegno di volonatari nella campagna elettorale” – quell’impegno cioe’ che due anni fa lo aveva portato alla casa bianca.
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