Obama's Victory: Relief and Hope

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LA VITTORIA DI OBAMA

Sollievo e speranza

La soddisfazione del presidente degli Stati Uniti e la gioia con cui i suoi connazionali hanno salutato la morte di Osama Bin Laden sono comprensibili. A Barack Obama è riuscito ciò che il suo predecessore aveva più volte auspicato e inutilmente tentato.
L’America non voleva soltanto combattere il terrorismo. Voleva anche e soprattutto colpire l’infame, vendicare i morti, dimostrare che nessuno può impunemente sfidare la sua potenza. La morte di Bin Laden non le restituisce i suoi figli, ma salda un conto aperto nel suo cuore e in quel senso biblico della giustizia che è proprio di una parte importante del Paese.

Vi saranno anche conseguenze politiche. Il presidente Obama ha ottenuto un risultato che gioverà alle sue fortune elettorali. I servizi americani hanno riscattato alcuni insuccessi del passato e dimostrato la loro forza. I nemici dell’America sanno di potere essere colpiti anche là dove le precauzioni e l’omertà dell’ambiente sembravano garantire la massima sicurezza.

Ma l’operazione di Abbottabad suggerisce altre considerazioni. In primo luogo la vicenda ha dimostrato che Osama Bin Laden non si è nascosto in una grotta, ma in una vistosa residenza, a un’ora dalla capitale pachistana, nel cuore del Paese che è stato (o sarebbe dovuto essere) il principale alleato degli Stati Uniti nella lotta contro i talebani e il terrorismo islamico. Dopo avere reso onore alla sagacia e all’efficienza dei servizi americani qualcuno potrebbe chiedersi perché la caccia a Bin Laden sia durata dieci anni e quanto del tempo trascorso sia dovuto alla modesta e riluttante collaborazione del Pakistan.

In secondo luogo il leader ucciso nelle scorse ore non era, e forse non è mai stato, l’amministratore delegato di Al Qaeda Inc, una grande multinazionale che dirige decine di filiali sparse per il mondo e ne muove le pedine sullo scacchiere globale. È il fondatore dell’impresa, il titolare del marchio, il profeta, l’ispiratore, il suo genio malefico. Ma non è il suo comandante in capo. Esistono le filiali, ma sono autonome e usano il marchio per meglio reclutare i loro adepti e dare risonanza mondiale alle loro imprese. Esiste Ayman Al Zawahiri, il medico egiziano che è stato in questi anni l’ideologo dell’organizzazione. Esiste l’islamismo somalo, capace di mantenere il Paese in uno stato di perenne anarchia. Esiste Anwar Al Awlaki, leader di Al Qaeda nella penisola araba, vale a dire nella regione più potenzialmente esplosiva del Medio Oriente. Esistono i guerriglieri islamisti dello Yemen. Esiste Al Qaeda nel Maghreb, una organizzazione corsara che usa il deserto come base e retrovia per le sue scorribande. Ed esistono gli irregolari, i terroristi solitari, gli aspiranti al martirio. Non è escluso che per molti di questi la morte di Osama Bin Laden sia addirittura la scintilla che può maggiormente infiammare le loro tentazioni suicide. Ed è persino possibile che molti rifiutino di credere alla sua morte e preferiscano costruire sulla vicenda di Abbottabad il mito, caro agli sciiti, dell’Imam nascosto.

In ultima analisi il fatto più positivo, nella lotta contro il terrorismo islamista, non è la morte di Bin Laden, ma l’apparizione nelle piazze arabe di un popolo nuovo, composto da giovani che non sembrano affidare all’Islam la soluzione di tutti i problemi e, pur essendo buoni musulmani, considerano il voto, nelle questioni terrene, più efficace del Corano. Sono loro i migliori nemici di Al Qaeda.

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