Per giorni i media di tutto il mondo si sono dannati per stabilire il fixing dei numeri che avrebbe dato Barack Obama nel suo discorso sull’Afghanistan. Quanti soldati rientreranno dal teatro di guerra, e in quanto tempo, in un complesso calcolo di aritmetica del “surge”. Ma, come spesso avviene in campagna elettorale (perché tra un anno e spicci si vota negli Stati Uniti) a volte il “frame”, la cornice, è perfino più importante del quadro disegnato dal presidente. Che prevede il rientro di 33mila uomini, 10mila entro la fine dell’anno, e il resto entro settembre 2012, giusto in tempo per le elezioni presidenziali.
Reso nell’ornata retorica del comandante in capo, che ha costruito il suo discorso come un vero e proprio “ritorno a casa”; un nostos che parte da dalle Torri Gemelle e da Pearl Harbour, si stende fino all’Afghanistan e al Pakistan del compound di Abbottabad per poi rientrare in America, a Chicago (dove si terrà un vertice Nato il prossimo maggio) e a Fort Campbell, dove il presidente si è complimentato con i Seals della missione bin Laden.
Un andamento circolare, racchiuso nella frase chiave dell’intervento di Obama, quasi un’esortazione: «America, è tempo di concentrarsi sul nation building qui, a casa». Un’anabasi, più che un’odissea. Tanto che la tiepida accoglienza dello speech da parte dei media americani si può leggere come uno scontro tra narrative in conflitto. Da una parte, quella della Casa Bianca che rivendica il successo dell’omicidio di bin Laden e la sostanziale conclusione della vicenda iniziata l’11 settembre di dieci anni fa («Stiamo mantenendo quell’impegno» ha scandito Obama, nella frase più delicata dell’intero discorso).
Dall’altra, l’opinione pubblica americana che nelle parole del presidente sente, invece, puzza di “missione compiuta” (come nello sciagurato striscione bushiano sulla Lincoln) e, facendosi qualche calcolo, teme che questa nuova svolta dell’amministrazione contraddica la strategia sin qui tenuta dai generali, consegnando il dossier afghano all’archivio dei fallimenti a stelle e strisce, scaffale Iraq e Vietnam.
Dal momento, però, che il discorso del presidente era in prime time, scodellato direttamente nelle case degli americani, l’immagine sussurrava anche più della voce di Obama. Innanzitutto, nella scelta del luogo. Non lo Studio ovale che, nella storia della Casa Bianca, è il Sancta Sanctorum delle dichiarazioni solenni, in particolare sulla guerra (per tutti, John Fitzgerald Kennedy sulla crisi cubana). E neanche una accademia militare, dove di solito tra soldati e stellette si spiegano le strategie e i piani più ambiziosi.
Niente da fare, per gli spin doctor del presidente il messaggio di ritorno-a-casa non doveva essere spazzato da venti di guerra, tutto doveva suggerire una nuova fase.
Sulla scia visiva dell’altro annuncio, quello della missione che ha portato alla morte di Osama. Stessa location, la East Room, con la sua guida rossa, la fuga di colonne bianche, le sedie d’oro e damasco, il lampadario di cristallo, il podio leggero, le bandiere. Un set più spazioso dello Studio ovale, ma che nei piani degli Obama boys è stato trattato secondo le rigide regole che valgono per l’ufficio del presidente: un solo giornalista della carta stampata in pool e un solo fotografo.
Ed è stata, anzi, una concessione, perché finora gli scatti del discorso venivano fatti soltanto dopo, in una specie di finzione cui Obama si sottoponeva per consentire anche ai fotoreporter di avere le immagini dell’intervento. Proprio la scorsa volta, quella di bin Laden, la stampa si era lamentata per non avere avuto accesso durante lo speech, ma solo al termine.
Il racconto visuale del discorso sull’Afghanistan era, dunque, in piena continuità narrativa con quello di Osama, era il suo step successivo, serviva a rievocare anche iconicamente, in maniera subliminale, il più grande successo dell’amministrazione: vedevi il presidente e pensavi al blitz dei Navy Seals. Lui da solo, senza generali e collaboratori.
Stretto da una interminabile zoomata di venti secondi, e poi quasi un quarto d’ora di mezzobusto, gestualità ridotta ai cenni delle mani, gli occhi sul teleprompter.
Gli altri staranno lì a fare i conti. Ma l’augusta immagine del comandante-in-capo suggeriva solo una cosa: sono quello di Osama, adesso vi riporto a casa. E magari fra un annetto ritornerò pure io a casa. Bianca, magari. Missione compiuta?
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