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Posted on September 14, 2011.
Ci sono molte chiavi di lettura per spiegare quanto è accaduto al Cairo. Ne vorrei proporre una semplice e preoccupante: di fronte al declino dell’egemonia americana in Medio Oriente nessuna forma di stabilità regionale è compatibile con il perdurare del conflitto israelo-palestinese.
Non appena il vento della Primavera araba aveva raggiunto l’Egitto, molti osservatori avevano preconizzato che il crollo del regime autoritario e corrotto di Mubarak avrebbe lasciato il campo libero alle forze islamiste radicali, ostili al Trattato di pace firmato con Israele nel 1979. La dura realtà è che non occorre scomodare la Fratellanza Musulmana per spiegare l‘assalto da parte di migliaia di dimostranti all’ambasciata israeliana, perché quel trattato non è inviso soltanto agli integralisti musulmani, ma a gran parte della popolazione egiziana, che continua a ritenere che la «pace separata» siglata dall’allora presidente Sadat abbia rappresentato un tradimento della causa araba.
Il possibile cortocircuito tra le rivoluzioni arabe – che rappresentano un elemento positivo di dinamismo, capace di porre fine a quei decenni di autismo politico che avevano concorso a generare il terrorismo qaedista di Bin Laden – e l’irrisolto conflitto israelo-palestinese – il cui non superamento ha costituito una micidiale zavorra per il futuro di tutti i popoli della regione – sta proprio in questa «novità» che si prospetta per l’ordine mediorientale: cioè il prevalere nell’equilibrio regionale dei caratteri endogeni rispetto a quelli esogeni.
Un fatto che di per sé sarebbe positivo, se non per una circostanza decisiva: ovvero che senza l’influenza determinante esercitata da un attore esterno, gli Stati Uniti, nessuno stato di quiete (non parlo di pace) è possibile nella regione, perché il potenziale destabilizzante rappresentato da un conflitto che dura ormai da oltre 60 anni e che ha metabolizzato più di un «processo di pace» non trova nessun rimedio. Gli attori regionali hanno capacità sufficienti, semmai, per accrescere gli effetti disordinanti di quel conflitto (si pensi all’Iran o alla Siria), o per esserne risucchiati (si veda la Turchia), ma non per contrastarli e neppure per tenerli semplicemente a bada.
Gli anni colpevolmente perduti nel decennio dei Novanta, e il successivo decennio post 11 settembre, in cui l’omologazione di ogni forma di lotta violenta con il terrorismo e la logica semplicistica e però in un certo senso obbligata della «war on terror» ha fatto se possibile ulteriormente imbarbarire il quadro delle relazioni arabo-israeliane (ripresa delle intifade, recrudescenza degli attacchi contro obiettivi in territorio israeliano, invasione del Libano, invasione e blocco economico di Gaza), ci hanno condotto a una condizione che era di stallo solo grazie alla crescente presenza e influenza americana nella regione. Da oggi, dovrebbe essere chiaro a tutti che una simile condizione non ce la possiamo più permettere.
Venerdì si è così cominciato a profilare quello che dall’inizio dell’anno le autorità israeliane temevano, e che hanno fatto ben poco per cercare di scongiurare. La frustrazione della folla egiziana per la contraddittorietà e la lentezza del processo di transizione democratica si è saldata con la rabbia nei confronti di Israele, per l’impunità di cui sembra godere in virtù della sua relazione speciale con gli Stati Uniti e del cosiddetto doppio standard con cui l’America giudica quel che accade in Medio Oriente. Come ha sostenuto un manifestante intervistato da Al Jazeera : «Obama chiede a noi di rispettare l’incolumità dei cittadini israeliani in Egitto, ma non ha speso una parola per condannare l’omicidio da parte delle forze di sicurezza israeliane di cinque guardie di frontiera egiziane il 18 agosto scorso».
Sono quasi le stesse parole che ha usato il premier Erdogan, a proposito del «silenzio di Obama» dopo che le anticipazioni di stampa sul rapporto dell’Onu – che condanna l’uso eccessivo della forza durante l’assalto alla flottiglia di solidarietà per Gaza nel maggio 2010 (in cui sono stati uccisi diversi cittadini turchi) – hanno portato Ankara ad un passo dalla rottura delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv. Come se non bastasse, tra pochi giorni, l’Assemblea generale dell’Onu dovrà discutere della dichiarazione d’indipendenza palestinese presentata dall’Anp.
La prevista opposizione americana (e forse europea) non potrà che essere percepita come l’ennesima provocazione da parte di un’opinione pubblica esasperata. In simili circostanze, il rischio che la regione corra rapidamente verso un nuovo conflitto è tutto fuorché aleatorio, anche a fronte del crescente isolamento di Israele, che in poco più di un anno ha perso i due soli (tiepidi) alleati che aveva nella regione: Turchia ed Egitto. In queste condizioni nessuno, a cominciare da tanti cittadini della democratica Israele, può più permettersi il lusso di ignorare che la sola alternativa a una pace vera sarà l’ennesima, inutile guerra.
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