NEW YORK HA CAMMINATO in punta di piedi nel campo minato della retorica e dello sciovinismo, l’ America dei dieci anni dopo. Ha resistito alla tentazione della politica, alle sirene delle lacrime, alla ricerca del magone. SEGUE NEL benefico, tacito accordo fra leader politici per lasciare questa giornata senza tirarsi calcetti a coloro ai quali davvero apparteneva. Ai tremila uomini, donne, bambini, neonati polverizzati nel più osceno attacco all’ umanità che il mondo abbia mai visto con i propri occhi. E che non potrà mai più «non vedere» come ha detto il sindaco Bloomberg. New York, la città dell’ eccitazione e dell’ insonnia, del cinismo e della corsa dei topi, era diventata, già dalla notte vuota di sabato fino alla ritirata delle flotte di suv e di limousine nere usate da Obama e Bush in fine mattinata, un’ isola di silenzio. Per chi ha conosciuto il frastuono di fondo, la cacofonia urbana che forma la rapsodia di Manhattan, questa notte, e poi questa mattina di quiete graf fiata soltanto dalle rare lagne delle autopattuglie in corsa verso minacce immaginarie e dagli echi delle voci e della musica dal palco su West Street, il confine orientale del cratere divenuto cantiere, erano insieme rassicuranti e inquietanti, nella loro innaturalezza. Persino il reduce del Vietnam, un ex bombardiere di B52 con le insegne dell’ operazione Rolling Thunder, bombe a tappeto, che trascinava avanti e indietro su Church Street, il limite occidentale di Ground Zero, un trolley con altoparlante, amplificatoree batteria d’ auto, blaterando nel silenzio gli inni dei Marines e della Marina, era guardato male da newyorkesi. In un giorno qualsiasi non lo avrebbero degnato di un’ occhiatina. Oggi la colonna sonora era il classico “Sound of Silence” di Simon and Garfunkel, il suono del silenzio. Silenziosi anche loro, scivolando con i cortei ufficiali fra i camminamenti di servizio scavati fra i cantieri e le immense gru, in un’ enormità che nessun articolo od obbiettivo possono raccontare, sono arrivati George Bush e Barack Obama, con le loro first ladies, alle 9 del mattino. Forse tremila persone, quattromila a essere generosi, si erano assiepate su West Street per ascoltarli, meno di quante fossero le armate delle postazioni televisive appollaiate sulle terrazze dei grattacieli del Wfc, il World Financial Center, nella loro trincea di riflettori, luoghi comuni, commenti rimasticati e clip video riproposti fino alla nausea ormai da settimane per strapparsi un telecomando. Nella loro uniforme presidenziale d’ ordinanza, gli identici abiti blu scuro con camicia bianca, cravatta blu e l’ ormai obbligatoria e assurda bandierina americana all’ occhiello, come se mai qualcuno potesse confonderli con i presidenti del Daghestan, Bush e Obama hanno recitato mirabilmente la parte della nazione coesa e omologata di fronte una offesa tropNEW YORK po assoluta e trasversale per poter essere sfruttata in chiave politica. Non avevano alcuna importanza i rari brontolii di protesta equamente distribuiti, o la pattuglia di dimostranti “complottisti” tenuti a due isolati di distanza con il loro grande striscione rosso: «È Bush ad avere organizzato tutto questo», insignificante spazzatura cospirazionista. Anche loro, che in altre occasioni avrebbe rischiato un pestaggio, erano ignorati nella bolla del silenzio. Se Bush ha citato il fondatore del partito repubblicano, Abramo Lincoln, nella sua capacità di «comprendere la necessità del sacrificio», nella sua lettera alla madre di cinque figli caduti nella Guerra per salvare la nazione dalla secessione, «consapevole della sterilità e della inutilità delle parole», ma anche della necessità di esprimerle la gratitudine della repubblica, Obama è stato altrettanto, misericordiosamente breve e sorprendentemente mistico. Ha richiamato non il sacrificio della guerra, giusta o ingiusta, perché questo non era giorno per rimasticature ideologiche di falchi, colombe, liberal o neocon, ma la pietà del pur terribile Dio di Giacobbe, quello che «scuote la terra, scioglie i regni, devasta il mondo», ma «alla fine spezza le armi nella città di Dio, mette fine alle guerre ed è il rifugio dei rifugi, il mio rifugio». Laurae Michelle, dopo avere sfiorato con le dita i nomi dei morti incisi nel bronzo delle balaustre sopra le cascate verso il nulla, doverosamente si asciugavano un piccola lacrima. Le ormai grandi gemelle Bush erano con loro. Le ragazze Obama, forse ancora troppo piccole, erano rimaste a casa. C’ era molta paura alle 7 del mattino quando le televisioni hanno acceso i riflettori sul palco delle autorità e cominciato a inquadrare la Prima Torre, la “Freedom Tower” arrivata all’ 85esimo piano dei 105 progettati e sulla terra di riporto nel cantiere che sicuramente mescola per sempre nel fango i resti delle vittime e dei carnefici non più identificabili. Non di attentati, che seriamente qui non hanno turbato nessuno, se non le autorità che hanno riempito Manhattan di checkpoint alla Berlino Est, ma paura che la montatura sentimentale ed emotiva creata dal lungo addio dopo dieci anni producesse un kolossal di trombonate in 3D, una grottesca Disneyworld della memoria e del dolore. Non è stato, God bless America. Semmai una tenera noia si è dolcemente deposta sui 64mila metri quadri del cratere. E se il vice presidente Biden, un incurabile logorroico, ha parlato troppo a lungo davanti al Pentagono, il luogo del terzo massacro, Obama, Bush, il sindaco Bloomberg, l’ ex sindaco Giuliani, anche lui aggrappato alle citazione biblica tratta dall’ Ecclesiaste («c’ è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per la guerra e un tempo per la pace») sono scivolati leggeri sulla superficie di una giornata via via più grigia, nuvolosa, ma quieta e ben diversa dalla abbagliante e crudele luminosità del settembre 2001. Persino i “minuti di silenzio” imposti dal cerimoniale sono sembrati incongrui, inutili, dentro il silenzio della città e dei pochi turisti sia del dolore sincero, sia del macabro guidato. Quei visitatori che avevano illuminato la notte tentando, con i patetici flash dei loro telefonini e delle minicamerine tascabili, di riprendere l’ enormità di grattacieli in costruzione e del cantiere, come se potessero contenere un lago in un tegame. La verità di questa giornata, che sarà l’ ultima delle celebrazionie delle commemorazioni massiccee dell’ overdose televisiva nell’ inesorabile appannarsi del tempo, non era da cercare nel pellegrinaggio obbligato di Obama, che da Manhattan è volato a Washington per il memoriale del Pentagono dove morirono neonati e bambini piccoli sul volo che si sbriciolò. O neppure a Shanksville, la sua ultima stazione del calvario, nelle colline di carbone della Pennsylvania mineraria, dove i disperati eroi del volo United 93, quello raccontato dalle assistenti di volo con il telefono di bordo “Airphone”, spinsero il jumbo della United a polverizzarsi al suolo, con i reattori a tutta manetta. La verità, quella capace di scuotere anche il cinismo professionale più duro, anche la nausea per gli eccessi di retorica e di analisi politologiche retrospettive, era davanti al “Muro della Memoria”, quello innalzato dai parenti sugli steccati del cantiere, dove i santini dei morti hanno progressivamente sostituito le Polaroid e le foto famigliari dei dispersi – ancora quasi 700 senza nome- nelle prime settimane di speranza impossibile. È la famiglia colombiana, venuta da Bogotà, per farsi fotografare in gruppo – ne ho contati otto – con il capo famiglia che indica la fotina del fratello baffone bruno sotto il cappello a pentola dei Vigili del Fuoco, dove si era arruolato per accelerare la naturalizzazione, nel lungo bassorilievo di bronzo dedicato a loro. È la mano del bambino, che scrive accanto alla foto del padre ripreso per l’ eternità mentre gioca con lui che indossa un guantone da catcher di baseball di tre misure troppo grandi, e occupa maleducatamente, appassionatamente tutto lo spazio attorno scrivendo «I miss you sooooooo, sooooo, soooo much, daddy», mi manchi tanto. Alle prime ore del pomeriggio, era tutto finito. Il campionat
o di football, atteso come un messia, doveva partire alla una e i telecomandi avrebbero lasciato le lacrime per passare alle urla del tifo. I turisti, stanchi di girare attorno alle piscine del vuoto, di affacciarsi sulle cascate della vertigine, strascicavano i piedi verso la subway finalmente riaperta alle 11, verso i negozietti e i banchetti di “souviner”, come annuncia l’ insegna di un venditore più intraprendente che grammaticalmente corretto, per la doverosa Tshirt ricordo dei 343 pompieri stritolati mentre salivano verso l’ 85esimo piano, portando 30 chili di equipaggiamento e di bombole. E la bolla del silenzio si rompeva, per permettere a New York di uscire, di rinascere, di fare confusione, di sgomitarsi, di essere quella città che è impossibile non amare o non odiare.
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