La recente eliminazione di Anwar al-Awlaki, il reclutatore di al Qaeda nella penisola arabica, e le incursioni in Somalia contro gli Shaabab hanno portato i media a parlare nuovamente dei velivoli senza pilota (Uav, che sta per unmanned aerial vehicle, o drones, in italiano droni).
Nel primo caso si è trattato di un attacco mirato effettuato nello Yemen con una piattaforma non pilotata della Cia contro colui che era ritenuto tra gli eredi più temuti di Osama bin Laden, espressione della nuova generazione dell’estremismo islamico, i muslims reborn, figli di musulmani emigrati in Occidente.
Un missile Hellfire ha interrotto il suo cammino jihadista. Anche nel caso delle incursioni contro gli Shaabab (le milizie islamiche che controllano buona parte della Somalia centro-meridionale e la città costiera di Chisimaio), condotte a sostegno delle truppe keniote che hanno varcato il confine somalo per dare loro la caccia, sono entrati in azione velivoli senza pilota americani, mentre i francesi parlano di solo supporto logistico.
Washington e Parigi negano ogni coinvolgimento diretto soprattutto sulla presenza di truppe a terra, ma per gli americani la cautela è d’obbligo perché gli Uav dell’aviazione (US Air Force) e della Cia sono presenti in tutti i teatri operativi, a partire dall’Iraq per poi proseguire in Afghanistan ed ora nel Corno d’Africa e comunque dove sia necessaria la loro azione.
Occorre però precisare che in origine gli Uav erano piattaforme dedicate alla sorveglianza e ricognizione (RQ-1 Predator) ma con la situazione sul terreno che si evolveva rapidamente (operazioni Enduring e Iraqi Freedom) si rese imperativo un maggiore controllo del territorio cui dar seguito con azioni offensive rapide. Avvenne così il passaggio da piattaforma puramente di sorveglianza a quella multimission capability e quindi armata, inizialmente con due missili Hellfire (MQ-1B, nuova designazione del Predator). Gestita dall’aviazione statunitense, questa piattaforma interessò subito anche la Cia che l’impiegò sin dall’Iraqi Freedom per operazioni mirate tese all’eliminazione di capi di al Qaeda. La richiesta posta dall’aviazione di un Uav di maggiori prestazioni si tradusse nell’attuale MQ-9B Reaper, il vero hunter-killer per operazioni di supporto a seguito di mappature di intelligence per la ricerca di obiettivi ritenuti sensibili.
Armati con una combinazione di missili Hellfire e bombe a guida satellitare e laser, questi Uav sono la risposta ottimale alla guerra asimmetrica voluta dal Pentagono.
Il recente appoggio dato dagli americani con gli Uav al governo di Nairobi sembra rispondere a un preciso requisito operativo voluto dall’amministrazione Obama: essere presenti nelle aree a rischio senza impegnarsi a terra, disponendo la costruzione di una serie di mini-basi disperse tra il Corno d’Africa e la penisola arabica da cui prendono il volo ogni giorno numerosi Uav o droni, come vengono ormai chiamate queste piattaforme per monitorare le attività dei gruppi affiliati ad al Qaeda in Somalia e nello Yemen in particolare.
A parte i drones gestiti dalla Cia, che opera da sola e qualche volta con le altre forze americane, tutte le piattaforme non pilotate sono sotto il controllo della 17th Air Force, la componente aerea del comando Africom.
Da ricordare che in precedenza c’era già stato un intervento diretto degli americani con un’azione congiunta tra Uav e le cannoniere AC-130 del comando delle forze aeree speciali a sostegno delle truppe etiopi che nel 2006 cacciarono le milizie da Mogadiscio.
Successivamente all’uso della base di Camp Lemonnier a Gibuti (l’unica base permanente americana in Africa) che consente di sorvolare lo Yemen, che dista un centinaio di chilometri, il Pentagono ha attivato nel 2009 una base nelle Seychelles mentre ha ampliato la base di Arba Minch in Etiopia, che si trova a circa trecento miglia a sud di Addis Abeba e a circa seicento dal confine somalo (per fare un esempio delle capacità di un Reaper, il suo raggio d’azione è di 1.150 miglia).
Da questa base partirebbero gli Uav che appoggiano le operazioni keniote di questi giorni.
Fare una mappatura precisa di queste minibasi non è però facile perché se queste piattaforme sono gestite, controllate e guidate da basi poste all’interno degli Stati Uniti, non è certa invece la dislocazione dove i Predator e i Reaper vengono rischierati, specie se devono operare nell’area mediorientale.
Si parla di basi in Kuwait, Oman, Arabia Saudita e Iraq, anche se quelle in territorio iracheno potrebbero essere spostate in parte sulla base turca di Incirlik.
Anche se Washington nega ogni coinvolgimento nelle operazioni keniote contro i miliziani somali e Parigi parla solo di aiuti logistici, pur essendo particolarmente attiva nell’area, è chiaro che Nairobi vuole attivare una sorta di zona cuscinetto (buffer zone) a ridosso del confine somalo con il sostegno di Stati Uniti e Francia e per fare questo non c’è niente di meglio dei drones che sorvegliano in modo capillare il territorio d’interesse in modo discreto ed elusivo
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