Bisogna risalire al 1955 per rintracciare la visita di un segretario di stato americano in Birmania, nello specifico John Foster Dulles, il che basta per pesare la portata storica del viaggio di Hillary Clinton, che ieri è volata nella nuova capitale del Myanmar, Naypyitaw.
Il numero uno della diplomazia a stelle e strisce incontrerà oggi il presidente birmano, l’ex generale Thein Sein, e gli esponenti del governo, ma in agenda ci sono anche due incontri con il premio Nobel per la pace e leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi, con rappresentanti di minoranze etniche oggetto di feroci repressioni e organizzazioni non governative.
La visita, annunciata il mese scorso dal presidente Obama, segue un periodo di relative aperture in Myanmar, a cominciare dal rilascio di un centinaio di prigionieri politici, all’allentamento delle maglie della censura, alla rinuncia di una controversa diga cinese, fino all’apertura nei confronti di Aung San Suu Kyi. Tutte novità da maneggiare con cura trattandosi della Birmania.
La visita di Clinton ha proprio l’obiettivo di valutare le reali intenzioni del governo, che resta di fatto un’emanazione dell’ex giunta militare e che è riuscito a vincere le elezioni dello scorso anno solo estromettendo Suu Kyi. Ma senza dubbio questa visita è un fortissimo segnale e un incoraggiamento da parte di Washington perché il processo di riforme politiche ed economiche avviate nel paese si traducano in un «movimento per il cambiamento, a vantaggio del popolo », come ha spiegato la stessa Clinton.
La notizia del viaggio del segretario di stato, però, ha fatto sobbalzare molte organizzazioni che continuano a denunciare le ripetute violazioni dei diritti umani nel paese. Gli attivisti temono che questa mossa sia un’apripista per una riduzione della sanzioni americane imposte a più fasi dal 1990. Sanzioni che però per essere riviste dovrebbero essere discusse al Congresso non senza incontrare ostacoli.
Tra i repubblicani, infatti, c’è chi ha storto il naso per la spedizione della Clinton, bollando il suo soggiorno birmano come un’apertura a un regime fuorilegge, che ha intrecciato pericolose relazioni con Pyongyang per portare avanti un programma nucleare di cui si sa ben poco. Dal canto suo Clinton si è detta pronta a esercitare pressioni su Thein Sein perché liberi, come promesso, tutti i prigionieri politici, stimati tra i 500 e i 1.600, e perché siano finalmente risolti i conflitti con le minoranze etniche, che si trascinano dal 1948.
Ovviamente la mossa degli Stati Uniti non è passata inosservata al di là della Grande Muraglia. A Pechino, infatti, che a parole si è detta favorevole all’apertura dell’isolata Birmania a relazioni con altri paesi asiatici e occidentali, non sfugge che dietro la missione di Clinton potrebbe esserci una non troppo nascosta volontà americana di bilanciare il potere cinese in Asia.
Preoccupazione che non può essere banalmente smorzata dall’assenza del capitolo Myanmar-Cina nell’agenda dei colloqui con Thein Sein. Che il Dragone sia intenzionato a presidiare il territorio e a non mollare la presa sui suoi stati satelliti lo dimostra anche l’incontro avvenuto proprio lunedì scorso tra il vicepresidente Xi Jinping, futuro successore di Hu Jintao, e il comandante delle forze armate del Myanmar, Ming Aung Hlaing.
Non è chiaro se il vertice fosse da tempo in programma o se sia stato organizzato proprio per bilanciare l’arrivo del segretario di stato americano, ma di certo la Cina non resterà a guardare, anche perché potrebbe essere lo stesso governo birmano a desiderare un contrappeso per l’ingombrante vicino cinese.
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