White House: Race to Disappointment

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Casa Bianca, sfida alla delusione

Da tempo la politica europea non si impegna in uno dei suoi giochi di scenario preferiti: «la lezione Americana», cioè l’esegesi in chiave atlantista del destino comune dell’Occidente. Comprensibilmente. Il concentrarsi della crisi nei confini europei sembra aver fatto recedere gli alleati Usa al ruolo di comprimari. Eppure le peripezie di Obama, eletto come uno dei Presidenti più votati della storia degli Stati Uniti e finito oggi a doversi battere per una difficile rielezione, costituiscono in effetti un racconto esemplare di come la crisi economica stia obbligando la politica a cambiare, in tutto il nostro mondo.

Il percorso del Presidente Usa ci racconta intanto che al primo impatto con una realtà pesante, inamovibile, e indiscutibile, qual è il disagio economico, si vanifica, come bolle nell’aria, tutta quella «schiuma comunicativa» di cui tanto si sono nutrite le leadership degli ultimi decenni.

Le teorie sul carisma personale, sul rapporto emotivo-emozionale fra leader ed elettori, su messaggi e community, su simboli e identificazione, si rivelano per quello che sono: materia per tempi grassi.

Quello che è accaduto a Obama nel corso di questi ultimi anni è molto più semplice di quanto lo si immagini. Sotto il vento gelido della crisi le sue doti «magiche» nel sollevare speranze, mobilitare e motivare, si sono rivelate irrilevanti. Come qualunque altro Presidente, nero o bianco, bello o brutto, innovatore o conservatore, anche lui oggi, nei tempi magri, deve rispondere a una sola domanda: che proposte hai per riportarci al benessere?

E’ successo ad Obama, è successo in Italia a Silvio Berlusconi segnatamente ma non solo, sta succedendo a Cameron come a Sarkozy – e se c’è un vantaggio che segna la Merkel è proprio quello di essere sempre rimasta sui «fondamentali» – eppure è notevole come ci si rifiuti di prenderne atto. Anni di McLuhan (mal impiegato) non hanno preparato nessun leader al peggio.

Ma la politica spogliata delle sue arti «comunicative» sta facendo giustizia anche di una serie di concetti che fin qui sono stati l’asse di ogni buon manuale di governo. Anche in questo l’esperienza di Obama ha fatto da battistrada.

La forte polarizzazione economica che la crisi spinge ha nei fatti vanificato in Usa, come sta accadendo da noi, la convinzione che vince chi conquista la classe media, identificata anche con l’area moderata. Un’idea con un saldo fondamento, dal momento che nell’ultimo mezzo secolo nessun candidato democratico ha vinto senza conquistare il 60 per cento dei voti moderati. Ma come si definisce ora una classe media in rapido impoverimento, e, di conseguenza, cosa significa moderazione?

Sono i dilemmi con cui si trova a misurarsi già da parecchio il Presidente degli Stati Uniti. Misure che all’inizio del suo mandato avrebbero tranquillamente potuto passare come atti di riequilibrio sociale – il più importante da ricordare è certo la riforma dell’assistenza medica – si sono rivelate un campo di battaglia che gli ha alienato buona parte proprio della classe media. E, per la stessa ragione, interventi che avrebbero dovuto passare come sostegno alla classe media – pensiamo qui al salvataggio di alcune grandi istituzioni finanziarie, e agli aiuti per superare la crisi della bolla edilizia – si sono rivelati un frutto avvelenato che ha ulteriormente diviso i moderati.

Pochi casi sono più rivelatori di questa nuova atmosfera del complicato rapporto che gli Usa e il suo Presidente hanno sviluppato negli anni scorsi con Wall Street. Durante la campagna «Hope and Change» del 2008 Obama raccolse più contributi dal settore finanziario di tutti i politici nella storia degli Stati Uniti. Secondo dati Reuters, Wall Street fornì ad Obama il 20 per cento dei fondi, e in cima ai donatori spiccavano nomi quali Goldman Sachs, Aig, Morgan Stanley, JP Morgan Chase, Bank of America e Citigroup.

Gli stessi nomi che ritroveremo neppure poche settimane dopo l’elezione, al centro della peggiore crisi economica mai sperimentata in anni recenti. E il cui salvataggio, proprio per mano della Casa Bianca, è rimasto avvolto da allora in una nube di dubbio, divenuta sempre più densa con il focalizzarsi dei malumori dentro il Paese contro quella stessa Wall Street identificata come origine di tutti i mali. Una parabola perfetta per capire come nonostante Obama non sia cambiato, la sua presidenza si sia in buona parte sfarinata.

Il Presidente che affronta la rielezione del 2012 è dunque un uomo che non è più alla testa della trasformazione, ma ne è, piuttosto, al traino. Non è più perfetto alfiere di nessuna causa – è anzi troppo radicale per molti e troppo poco radicale per molti altri. E il Paese che guida è nel suo insieme molto più scontento e molto più radicalizzato dei nostri. Uno Stato in cui i semi del populismo possibile venturo sono molto più sviluppati di quel che si vede oggi in Europa. Di tutti i moniti che possiamo trarre dalla vicenda di Obama, questo è forse quello a cui prestare maggiore attenzione.

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