Stronger Today Than in 2008

Edited by Gillian Palmer

 

 

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NEW YORK – E’ tornato Lui, è il Barack Obama che il popolo democratico vuole: il leader dell’utopia concreta, del cambiamento possibile, della battaglia senza quartiere contro una destra reazionaria e ottusa. Il presidente usa il discorso dello Stato dell’Unione per dare al paese il senso della sfida che lo attende a novembre: una scelta di campo, tra due concezioni incompatibili dell’America. La nazione delle opportunità, o il paese della plutocrazia. Lo fa con un discorso abile, dai toni misurati, con l’aplomb del grande statista, ma senza cedimenti. Un’ora e cinque minuti, tante “standing ovation”, applausi in piedi, perlopiù dei democratici, qualche volta anche dei repubblicani. Obama racconta la sua ultima visita a Fort Andrews, la base militare dove “ho accolto le ultime truppe di ritorno dall’Iraq”, per sottolineare una delle promesse mantenute nel suo primo mandato: “Per la prima volta da nove anni, non ci sono più soldati americani che combattono in Iraq”.

Segue uno dei successi storici di questo presidente: “Per la prima volta da due decenni Osama Bin Laden non minaccia più gli americani, e anche la maggior parte dei luogotenenti di Al Qaeda sono in rotta”. La metafora militare si allarga ai Navy Seals che hanno portato a termine la missione contro Bin Laden, il loro successo “è il risultato dell’unione, dell’essere squadra, senza distinzioni di credo politico”. Questa è l’America vincente, che Obama vuole allargare anche nella società e nell’economia. “Un’economia costruita per durare, dove vale la promessa fondamentale di questa nazione: se lavori duro, ce la puoi fare”. Ecco la scelta fondamentale, quella che descrive la posta in gioco nell’elezione di novembre: “Se vogliamo essere un paese dove sta bene solo una minoranza sempre più ristretta, o dove ciascuno ha la parte che gli spetta”. Ricorda la situazione drammatica che lui ha ereditato dall’Amministrazione Bush: “Già molto prima della recessione, la ricchezza si stava accumulando ai vertici della piramide, mentre la maggioranza dei nostri concittadini accumulava debiti”. La grande crisi del 2008 è stata come “il crollo di un castello di carte”. Rivendica un miglioramento, sia pure insufficiente, sotto la sua Amministrazione: “Due milioni di posti di lavoro creati dal settore privato negli ultimi 22 mesi, e per la prima volta da decenni l’industria manifatturiera ha ricominciato a creare occupazione”. Un simbolo di questa rinascita industriale, ricorda, è la General Motors tornata al primo posto mondiale.

Ne approfitta per una proposta concreta, un piano di incentivi fiscali a tutte le imprese che ri-localizzano posti di lavoro negli Stati Uniti. E annuncia la creazione di una task-force speciale per contrastare la concorrenza sleale della Cina, combattendo ogni forma di pirateria. La formazione è la chiave per recuperare competitività: “Daremo un’istruzione a due milioni di lavoratori, perché abbiano la qualificazione per trovare lavoro”. Il “ritorno ai valori americani” passa per la lotta a un’ingiustizia stridente, quella fiscale. Qui Obama ha già dato un segnale invitando tra gli ospiti al Congresso, a fianco di sua moglie Michelle, la segretaria del miliardario Warren Buffett. Fu Buffett a farne un caso, rivelando che l’aliquota dell’imposta sul reddito della sua segretaria è molto superiore a quella che paga lui, il secondo uomo più ricco degli Stati Uniti.

“Se guadagni più di un milione di dollari all’anno – dice il presidente – non devi pagare meno del 30%”. Rilancia così la Buffett Tax, l’imposta sui milionari: un’idea che spiazza i repubblicani nello stesso giorno in cui uno dei loro candidati alle presidenziali, Mitt Romney, ha dovuto rivelare che sul suo reddito multimilionario paga appena il 14% di tasse. “Non accusatemi di fomentare la lotta di classe – dice il presidente – qui non c’è invidia per chi ha successo”. Ripresa dalle telecamere, un’altra ospite a fianco di Michelle è la vedova di Steve Jobs, un simbolo del capitalismo creativo e innovativo, a riprova che Obama non vuole “criminalizzare” lo spirito d’intrapresa. Che i ricchi paghino la giusta parte, è condizione indispensabile per non tagliare i fondi alla scuola, l’investimento strategico sul futuro.

Un’altra stoccata la dedica a Wall Street, annunciando la creazione di una nuova “polizia” contro le grandi frodi finanziarie. Il presidente sa che questi annunci rischiano di cadere nel vuoto: gran parte della sua agenda di riforme è stata vanificata dall’ostruzionismo della destra, poiché i repubblicani dal novembre 2010 hanno la maggioranza alla Camera e una minoranza di blocco per fare ostruzionismo anche al Senato. Ma promette che i mesi da qui all’elezione di novembre saranno di scontro: “Con o senza questo Congresso, io farò tutto quello che è in mio potere perché l’America vada avanti”. Pochi gli accenni alla politica estera, ma sull’Iran il presidente è duro: “Abbiamo isolato il regime, le nuove sanzioni sono devastanti, nessuna opzione è esclusa per impedire che si doti di armi atomiche”. Conclude su una nota decisamente ottimista: “Chi parla di un’America in declino non sa cosa dice. Nessuna sfida è troppo grande per noi, lo Stato dell’Unione sta migliorando, e sarà sempre più forte”.

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