La Rete e il rischio di giocare sempre al volo
Il regista afro-americano Spike Lee denuncia via Twitter l’indirizzo del presunto killer di un ragazzo nero in Florida, e per qualche ora diventa l’eroe protagonista di una coraggiosa campagna antirazzista. Ma l’indirizzo svelato dall’autore dei film «Malcolm X» e «La 25ª ora» non corrisponde a quello di George Zimmerman, il bianco di 28 anni, accusato di avere ucciso il 26 febbraio a Sanford, Florida, il diciassettenne Trayvon Martin. E’ casa di due pacifici pensionati, Elaine e David McClain, la cui sola colpa è avere un figlio di 41 anni che usa il cognome «Zimmerman», omonimo dello Zimmerman sotto inchiesta, a piede libero, per omicidio: il nome è abbastanza comune negli Usa, Bob Dylan si chiama in realtà Robert Zimmerman.
Il caso di Trayvon Martin spacca l’America, il presidente Obama dice «Se avessi avuto un figlio maschio sarebbe stato come lui». Zimmerman, studente di legge e volontario nelle ronde di quartiere contro i ladri, dice di essersi difeso sparando perché Trayvon l’aveva aggredito indossando un «hoodie», la felpa col cappuccio. L’indumento diventa simbolo di protesta, indossato da deputati, sportivi, studenti.
Nessuno s’è appassionato alla causa come Spike Lee. Su Twitter, un social network che permette di scambiare brevi messaggi con la propria comunità, @spikelee ha preso a insultare i bianchi razzisti, e a rilanciarne i messaggi. Un po’ come nella segreteria telefonica lasciata in onda a Radio Radicale negli Anni 80, è venuto fuori il ritratto di un Paese dove razzismo, violenza e luoghi comuni allignano negli anni di Obama, primo presidente afroamericano.
Ma l’errore grottesco del regista, la leggerezza con cui ha esposto due anziani a possibili proteste e rappresaglie, la fuga dei McClain in un motel per non correre pericoli, «sono cardiopatico, vivo di ansia» confessa alla tv Cnn David McClain – riapre la riflessione: come devono usarsi i social network, Facebook, YouTube, Twitter, Pinterest, nelle proteste politiche e di diritti civili? In un mondo dove il giornalismo professionale, la mediazione politica dei partiti, perfino l’organizzazione fluida dei movimenti con un leader, lascia il campo al «tutto e subito» della comunicazione via web, come tutelare la privacy dei cittadini, evitando che buon senso e raziocinio finiscano preda di populismo e meschine rivalse?
Di tutti i media nuovi Twitter -140 caratteri di messaggio che potete mandare alla vostra comunità, mentre seguite i tweet di intellettuali, politici, artisti o amici personali – è quello che meglio si presta a campagne di informazione o mobilitazione. Permette di far pensare, informare, imparare, ma non ha filtri. Nel passato Spike Lee avrebbe chiamato il suo addetto stampa, «Ho un’idea, diffondiamo l’indirizzo di Zimmerman…», o si sarebbe rivolto a un giornalista «Facciamo un’intervista…» e il reporter, se serio, avrebbe telefonato in Florida per verificare.
Nei new media, formidabili, rapidissimi, c o i n v o l ge n t i , ma privi di freno, Spike Lee ha rilanciato le offese dei razzisti per giorni, ha chiesto giustizia per Trayvon, ma alla fine è stato travolto dalla rabbia e, in nome del diritto, ha inflitto una grave ingiustizia a due innocenti. Fa parte della sua personalità, il suo cinema è punteggiato di populismo rauco, quando tifava a New York al Pier 23 per la squadra di calcio del figlio, finiva sempre a insulti all’arbitro, a volte agli stessi bambini se sbagliavano un gol. Stavolta ha combinato un guaio vero, violando perfino le regole di Twitter che proibiscono la diffusione di dati personali, indirizzo incluso, senza autorizzazione degli interessati. S’è scusato, ma non basterà.
Finirà, c’è da scommetterci, con un confronto legale e un risarcimento, palese o sotto banco, siamo in America e un avvocato si nasconde dietro ogni torta di mele. Ma la mancanza grave di Spike Lee deve far meditare: senso comune, responsabilità, equilibrio, contano online come nei vecchi giornali. E quanto più chi informa è importante, noto, influente, tanto più è tenuto a aprire occhi, mente e cuore.
Su Twitter si gioca sempre al volo, sempre. Ci sono falsi profili (Fornero, Napolitano, Celentano), false notizie (morte Castro, Mandela, liberazione Urru), false reazioni. Jack Dorsey, fondatore di Twitter come @jack, scambia un falso Cormac McCarthy per il vero autore di «La strada» o «Non è un paese per vecchi». Come Spike Lee, in altri tempi, Dorsey avrebbe controllato l’identità dell’artista, sulla sua creatura si è sentito spericolato, ha twittato «Do il benvenuto a un maestro della letteratura», senza accorgersi che i tweet del presunto McCarthy «Niente di meglio che svegliarsi all’alba e scrivere grande romanzo americano, con fiume e barche» erano una satira. Disavventure analoghe anche in Italia, dovute a fretta, entusiasmo, ingenuità, rabbia.
Il nostro futuro sono i social network, personale, pubblico, politico. Il futuro del giornalismo, ancora più che nei siti internet tradizionali, è nella grande conversazione sociale in corso 24 ore al giorno sul pianeta. Dove ogni storia è storia di tutti, e tutti si sentono cronisti e commentatori. Ma i valori classici, serietà, equilibrio, autorevolezza, equanimità,controllo delle fonti,non mutano, anzi sono ancor più necessari nel mondo nuovo.
Twitter è uno specchio, ci dice solo chi siamo davvero. Seguito da 254.526 persone (alle 20,43 italiane di ieri) @spikelee segue appena due persone, moglie e figlio, oltre alla propria casa di produzione cinematografica. Come dire: io non ascolto nessuno, voi ascoltate me. Un’arroganza che al cinema, old media, può dare anche qualche brillante risultato. Nell’universo new media porta al disastro. Lezione di umiltà, da non dimenticare. Sempre in attesa che il ragazzo Trayvon Martin abbia giustizia, ma nell’auspicio che i new media corroborino la giustizia, non ricorrano alla giustizia sommaria di un linciaggio online.
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