Ora Mitt Romney fa paura
La campagna di Obama è in affanno. E il Gop può sperare
Obama dovrebbe vincere. Ma potrebbe perdere. Un insider della politica washingtoniana descrive così l’aria che si respira nelle stanze dei big e degli strateghi del Partito democratico. Perché questo senso di smarrimento e di preoccupazione intorno a un personaggio talentuoso come il presidente in carica che ha di fronte uno sfidante obiettivamente molto modesto? «La campagna di Obama – ci spiega il nostro interlocutore – è mediocre, autocompiacente e non strategica, e per di più autoreferenziale, cioè per niente aperta al contributo e al consiglio di altri. È un’operazione da un miliardo di dollari, ma gestita da una piccola cerchia ristretta. In definitiva, è basata sulla nostalgia, per riagguantare l’onda del 2008, che però si è dissipata da tempo. Non c’è modo di aiutarli perché respingono qualsiasi aiuto. Fa paura osservare tutto questo».
Diagnosi impietosa, che si potrebbe anche liquidare come il solito, mai sopito, rancore del clan clintoniano – la nostra fonte è di quel giro – nei confronti di Barack Obama. Molti indizi, però, dicono che le cose stanno proprio così. Per dire l’ultima, nelle primarie democratiche in Kentucky, martedì scorso, il presidente ha vinto con il 58 per cento dei voti. Una robusta vittoria? Non proprio, considerando che le elezioni primarie democratiche sono poco più che simboliche e che in molti stati il presidente-candidato non ha avversari e, dove li ha, sono personaggi folkloristici e sfidanti improbabili. Insomma, in uno stato del sud, come è appunto il Kentucky, ben quattro elettori su dieci sono andati al seggio per votare delegati non legati a lui, ma “uncommited”, cioè senza un mandato vincolante da assolvere alla convention democratica di Charlotte, ai primi di settembre. Addirittura in 67 contee su 120, i voti per gli uncommitted hanno superato quelli per i delegati obamiani.
Quasi peggio in Arkansas, dove il presidente ha subito l’onta del 40 per cento conseguito dal suo avversario, tale John Wolfe, un avvocato del Tennessee che la stampa definisce «perennial political candidate», cioè una specie di prezzemolo di tutte le elezioni, a cui partecipa per conseguire qualche istante di notorietà.
Certo, Kentucky e Arkansas sono stati solidamente rossi, cioè sicuramente repubblicani, eppure queste bislacche primarie sono comunque indicative di una preoccupante debolezza democratica nella fascia meridionale del paese. Dunque, quella che un paio di settimane fa sembrava una stravaganza locale – il 40 per cento ottenuto da un detenuto, Keith Judd, nelle primarie in West Virginia – era il sintomo di un malessere più serio che la squadra del presidente Obama dà l’impressione di sottovalutare.
Certo, possono anche rinfrancarsi con gli ultimi sondaggi, il presidente e i suoi consiglieri. Come quello del Wall Street Journal che dà Obama in vantaggio su Mitt Romney 47 per cento a 43. Ma poi, se scrutano meglio tra le cifre dei diversi segmenti particolari, scoprono che i numeri sono meno rosei. Il 48 per cento degli intervistati, contro il 46, boccia la tenuta del presidente e solo il 33 per cento ritiene che il paese sia nella giusta direzione di marcia, mentre poco più del 50 per cento disapprova la sua gestione dell’economia.
Un altro sondaggio, condotto per conto della Msnbc, offre un quadro molto positivo per Obama in settori elettorali tradizionalmente a lui fedeli, come gli africanoamericani, gli ispanici, le donne, i giovani, gli anziani, gli indipendenti, e negativo in altri settori prevedibilmente ostili (bianchi, maschi, residenti nel Midwest, ceti benestanti, residenti suburbani), ma soprattutto, il sondaggio, conferma la scarsa fiducia generale nella sua gestione dell’economia (43 per cento, meno due punti in un mese!).
Si può discutere quanto si vuole sul valore di questi rilevamenti a poco più di sei mesi dalle presidenziali, un’eternità in termini politici. Si può anche affermare che se Obama non sta bene, Romney non sta meglio di lui. Ma il punto che preoccupa l’establishment democratico è proprio questo. Il rivale repubblicano, per la sua scarsa statura politica, e a questo stadio ancora iniziale della corsa elettorale, dovrebbe stare parecchio indietro rispetto al presidente in carica, sia nei sondaggi sia nella raccolta dei fondi. E invece i due stanno spalla a spalla in entrambi fronti.
Tanto che The Politico ieri pubblicava una lunga analisi di Jonathan Martin, che gli strateghi obamiani avranno letto con avidità e apprensione. «Esponenti di spicco del Partito repubblicano a lungo scettici, in privato, sulle prospettive presidenziali, stanno abbracciando una sorprendente nuova visione, che Mitt Romney possa benissimo conquistare la Casa Bianca a novembre». Parlando con diversi leader del Gop, Martin ricava l’impressione di «un ritrovato ottimismo, l’idea cioè che, con un’acconcia campagna elettorale basata sul messaggio che Romney possa essere quanto meno competitivo con un presidente-candidato indebolito».
Quest’ottimismo è anche alimentato dall’osservazione dei problemi in casa obamiana. Primo fra tutti proprio la difficoltà evidente – constatata anche da diversi democratici – a trovare, da parte obamiana, «un messaggio conciso contro Romney». Tutto questo genera un circolo virtuoso intorno al candidato repubblicano, che vede un partito unito dietro di lui e una base che, prima riluttante, ora lo sostiene con convinzione. Un circolo virtuoso che, per i democratici, inizia a somigliare a un vortice di ansie e paure.
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