US: The Former President

OPD 6/17

Edited by Gillian Palmer

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Usa, the former president

Il presidente empatico si sta trasformando in divo potente e lontano. I giovani sono delusi, l’alternativa repubblicana c’è ma non ancora abbastanza forte

Estate amara. Potrebbe essere altrimenti quando le prospettive s’incasinano, le proiezioni vanno in rosso e il secondo mandato del presidente Obama rischia di diventare una cometa carteriana? Calma. E’ vero che i delusionisti premono al cancello della Casa Bianca. Che l’innato sensazionalismo di uno Spike Lee lo spinge a predire per colui che ancora chiama “my man” una corsa elettorale pericolosa, perché latitano la spinta popolare e l’entusiasmo d’una volta, perché la questione economica è dura da digerire, perché il lavoro che non c’è rende la gente infelice e perché, a quel punto, che a governare sia un nero, non aiuta. Il che conduce Lee alla devastante conclusione che chiunque non approvi l’operato di Obama oggi, sia un razzista – ma dello smottamento intellettuale del regista di “Fa’ la cosa giusta” s’è detto in passato. Anche se Spike conclude l’analisi con un’altra profezia di cui tener conto: “Quando arriverà il momento dei dibattiti, Obama farà a pezzi Romney”. Probabile? Possibile. Ma imprevedibile oggi, con gli scenari in accelerazione. Ieri anche la versione per iPad dell’Huffington Post è uscita con una copertina che esplicita quanto detto da Spike Lee: i giovani che hanno portato Obama alla Casa Bianca oggi sono delusi.

Quasi nessuna elezione è facile. E una rielezione, in tempi di scontento nazionale, non può essere scontata. Le opinioni vagano, in cerca d’appigli d’ottimismo. Le dichiarazioni di fedeltà evaporano, disillusione e rinfaccio sono all’ordine del giorno. Una cosa Obama l’ha perduta: la corsa contro il tempo nel vano tentativo di raddrizzare la barca americana prima che tornassero gli esami. Ha fatto alcune cose, ha raggiunto risultati, ma il cielo americano non è sereno. E gli ultimi dati non sono incoraggianti: sessantanovemila nuovi posti di lavoro a maggio, cifra deludente, tasso di disoccupazione in aumento, produzione che rallenta, consumatori che ansimano, Borsa in emorragia continuata. “E’ la spirale europea”, dice adesso Obama. E gli americani, in maggioranza, non capiscono di cosa stia parlando, il che fa di questo messaggio un errore strategico – tanto più ricordando quanto si tinse di “europeo” il primo Obama, cosa che può innervosire gli elettori più tiepidi (questa lontana Europa, è un esempio o una iattura?).

Il saputone (tutt’altro che infallibile) James Carville, stratega democratico veterano, dice che l’errore marchiano che Obama sta commettendo nel messaggio elettorale è sottolineare gli sforzi prodotti, i disastri evitati e i (limitati) successi economici conseguiti. La sensazione diffusa è che le cose non torneranno mai a essere com’erano una volta, che gli happy times sono un ricordo, il futuro è gramo e molto ancora è nelle mani di fattori imponderabili verso i quali, perfino il delegato alla felicità, ovvero il presidente, ha poteri limitati. Gli americani così non si sentono rassicurati e danno spazio alla tentazione di cambiare aria alle stanze, dando retta a chi dice che ora tutto è sbagliato.

Nel ragionamento di Carville c’è un bel po’ del disprezzo massimalista che contraddistingue le analisi degli strateghi, ossessionati dall’essere “fulminanti”. Ma c’è del vero – e questo “vero” corrisponde al tasso d’incertezza che questa elezione porterà con sé fino alla fine, ben dentro l’interrogativo “quanti indecisi e in quali stati opteranno per fidarsi ancora di Obama?”. Del resto, una constatazione più savia suggerisce che, stavolta più che mai, l’elettore americano soppeserà il valore della sua scelta, perché mai come adesso sente affidato il futuro alle mani dell’uomo che sceglierà come presidente. Quindi il clamore dei sondaggi a raffica va ridimensionato, mentre invece un’attenzione continuata va accordata alla modificazione stilistica del modo di comunicare di Obama e dei relativi argomenti prescelti. Perché l’America è in mezzo al guado, l’interpretazione di Obama nel ruolo del magico traghettatore è datata, e ciò che invoca ora il presidente è prima di tutto “fiducia” – in ciò che sta facendo e nella sua direzione di marcia – in base alla competenza, alla lucidità e alla lungimiranza della visione che incarna. Otterrà ciò che chiede? Certamente gli converrà limitare le generalizzazioni sul tasto dell’“andiamo sempre meglio” perché un sacco di gente, di fronte alle tv del salotto, scuoterà la testa e dirà che non è affatto vero e che le cose non vanno proprio come dovrebbero e chi comanda, o non sa, o non capisce, o ci marcia.

L’empatia: ai tempi eroici del primo avvento, fu l’arma più potente e innovativa di Obama. Dare la sensazione di capire, di comprendere le difficoltà dell’americano medio, farle proprie e trasformarle in programma. Il presidente ora non deve commettere l’errore di parlare col cinismo del consumato politicante che ostenta un “win all” che non ha cittadinanza nel paese reale. E’ essenziale. Obama non può smettere d’essere l’Obama originale, quello progettato con Michelle e con Axelrod, trasformandosi in un Obama-feticcio, divistico e stanco, potente e lontano. Deve tornare vicino a chi l’ha amato e fare ciò che è tecnicamente impossibile per un Romney: condividere. Deve riacquistare l’immanenza che stregò l’America, il suo valore vicino a esperienze originali, perfino la matrice da predicatore revivalista. Il suo ondeggiare. E’ inutile che si trinceri dietro i faticati risultati del suo governo: si dedichi a comprendere la sofferenza della nazione, che non ha più ciò per la quale è nata.

Poi c’è Romney: quante possibilità ha il candidato repubblicano di distruggere l’architettura sociale di Obama? Alcune, ma non troppe. Perché, comunque, vive specularmente delle imprese del presidente, gode delle sue disgrazie, ma non incarna un effettivo pensiero forte alternativo, al di là di generalizzazioni liberiste che oggi hanno presa propagandistica su una porzione limitata del paese. E poi, anche lui ha le sue battaglie da vincere, sul fronte interno, al cospetto di tanta America conservatrice insoddisfatta d’essere rappresentata dal mormone sempre a corto di coraggio e onestà. Certo, Romney può riproporre la storica domanda reaganiana ai connazionali: “State meglio oggi di quattro anni fa?”, ma la sua incarnazione dell’altra via non ha la forza dell’antico istrione e il suo trascinamento emotivo somiglia a quello di un ghiacciolo alla menta. Deve temerlo Obama? Deve rispettarlo, come seppe rispettare McCain quattro anni fa, rifiutando il gioco sporco, imponendo il suo fattore innovativo, mantenendo le distanze, affidandosi alla forza di una personalità con la quale – come vaticinava Spike Lee – Romney non può competere. Senza commettere errori marchiani, provocazioni indecenti, mosse inattuali – in quanti si sono messi le mani nei capelli, ascoltando la sua discesa in campo nella questione omosessuale, non per gli argomenti, ma per il timing. Tutto ciò si racchiude nel fatto che Obama non è più un’onda insuperabile, dalla quale la nazione-progetto non vede l’ora di farsi sommergere. E’ un grande politico attivo, alla prova di quanto può ancora dare. I numeri, pendono dalla sua parte, ma gli sbilanci sono pronti a cambiare in base agli slittamenti degli indecisi. E’ qui che un Romney, foraggiato di quattrini freschi e rivendicazioni, l’aspetta, puntando sugli insuccessi che può attribuirgli. Romney non è un eroe, non è un prodotto dell’immaginario popolare, è uno che gioca nel campionato dei Nixon e di Bush padre. Se vince, è perché Obama ha smesso di espandere il suo sé. O perché la sua interpretazione di quel mito ha smesso d’essere convincente.

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