I moderati nell’angolo
Paul Ryan e la democrazia che si radicalizza
L’uomo politico che sarà vicepresidente degli Stati Uniti, se Mitt Romney conquisterà la Casa Bianca, ha alcune delle caratteristiche che molti elettori, non soltanto americani, sembrano apprezzare in questo momento. Paul Ryan è giovane (42 anni, ma è membro del Congresso da quando ne aveva 24), ha il talento del grande comunicatore ed è risolutamente schierato sulle posizioni più radicali della famiglia politica (la destra repubblicana) a cui appartiene. Non ha dubbi. Per l’America dei suoi sogni occorre ridurre drasticamente le tasse, dimezzare quelle sulle imprese, tagliare spietatamente la spesa pubblica per la sanità, le pensioni e gli aiuti alimentari alle fasce più povere della società, vigilare severamente sull’immigrazione. È liberista, ma conservatore in materia di aborto e matrimoni fra omosessuali. E sul diritto di portare armi sembra essere vicino alla National Rifle Association, potente lobby di coloro per cui fucili a ripetizione e pistole di grosso calibro sono un irrinunciabile diritto costituzionale.
In apparenza, niente di nuovo. Negli Stati Uniti vi sono sempre state personalità politiche che credono appassionatamente in Dio e nel mercato. Ma Ryan è stato scelto per rafforzare l’immagine elettorale di un uomo che, quando era governatore del Massachusetts, era considerato uno dei più «centristi » fra i maggiori esponenti repubblicani.
Oggi, invece, Romney sembra credere che avrà più possibilità di vincere se avrà con sé un compagno conosciuto, tra l’altro, per avere presentato al Congresso un controverso progetto di bilancio che era polemicamente l’opposto di quelli di Barack Obama per il 2010 e il 2011.
Stiamo assistendo quindi a una nuova strategia. Per molto tempo i candidati più credibili, nelle maggiori democrazie occidentali, facevano campagne elettorali in cui l’obiettivo, al di là della rituale retorica, era la conquista del centro moderato, vale a dire di quella zona intermedia che non è ideologicamente schierata e che gli inglesi chiamano il «voto fluttuante». È possibile che il nuovo calcolo abbia qualche fondamento. In tempi di crisi economiche e forte conflittualità politica la zona intermedia si è ristretta e le soluzioni più radicali, di destra o di sinistra, esercitano una maggiore attrazione.
Quello che accade negli Stati Uniti è già accaduto in alcune recenti elezioni europee, dove le frange radicali sono diventate quasi ovunque più consistenti, e potrebbe accadere anche nelle elezioni italiane e tedesche del 2013. Potremmo consolarci pensando che i vincitori saranno costretti a tenere conto della realtà e ad annacquare i loro programmi. Nessuno oggi, nemmeno il presidente degli Stati Uniti, può fare una politica economica che prescinda da una pluralità di incontrollabili fattori esterni, dal futuro dell’euro a quello del sistema politico cinese. Ma un governo che non mantiene le promesse elettorali avrà l’effetto, soprattutto in questo momento, di esasperare le delusioni degli elettori che a quelle promesse avevano creduto e di alimentare i movimenti dell’anti-politica, oggi presenti in tutti i Paesi occidentali. Abbiamo già una grave crisi dell’economia e corriamo il rischio di avere domani, di questo passo, una crisi peggiore: quella della democrazia.
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