It's Not Obama's 9/11

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Non è l’11/9 di Obama

L’uccisione a Bengasi dell’ambasciatore Chris Stevens e di tre altri diplomatici statunitensi influirà sull’esito delle presidenziali di novembre? Per quanto grave e traumatizzante, l’attacco mortale contro il consolato americano – mentre in America volgeva al termine la giornata dell’11 settembre – difficilmente determinerà in misura rilevante gli orientamenti degli elettori che il 6 novembre dovranno scegliere, tra Obama e Romney, chi guiderà l’America nei prossimi quattro anni.

La gran parte degli elettori ha già deciso se e come votare. E tra gli incerti e i cosiddetti independent è improbabile che il tema dell’economia, al centro delle ossessioni dell’elettorato statunitense, ceda ora spazio a quello, pur sentito, della sicurezza messa a rischio dal terrorismo di matrice islamica.

La politica internazionale e la security sono state finora ai margini dello scontro tra il presidente democratico e il suo sfidante repubblicano. Di tanto in tanto le due questioni sono emerse negli scambi polemici, ma solo a livello di schermaglie, con Obama pronto a mettere in evidenza l’avventata inesperienza dell’avversario e con Romney impegnato a dipingere il presidente come un debole difensore degli interessi americani e – con un evidente sottotesto da dare in pasto alla destra cristiana e ai conservatori ebrei – a rappresentarlo come un amico del mondo islamico e ostile nei confronti d’Israele.

Ieri Mitt Romney è tornato a battere su questi tasti tentando, molto maldestramente, di “usare” la crisi libica.

“Usarla” per prendere di mira la Casa Bianca, descrivendo addirittura un’amministrazione che, fatto «vergognoso», invece di condannare gli attacchi «simpatizza con coloro che li hanno compiuti». Dichiarazione rilasciata quando ancora non si era ancora saputo dell’uccisione di Stevens, ma solo degli attentati al consolato di Bengasi e all’ambasciata del Cairo. Poi, invece di smorzare le grottesche accuse, il candidato repubblicano è tornato ad attaccare il presidente, la cui risposta ai fatti di Bengasi e del Cairo «riflette i segnali contrastanti inviati al mondo» e mostra «una mancanza di chiarezza nella sua politica estera».

Contemporaneamente, si vedeva in azione un Obama decisamente presidential, che dal Giardino delle rose della Casa Bianca, con al fianco Hillary Clinton, si rivolgeva alla nazione scossa, attento a non alimentare e a cavalcare lo shock e la paura, come avrebbe fatto il suo predecessore repubblicano, ma pesando le parole, mescolando la fermezza del commander-in-chief («Giustizia sarà fatta») che invia un contingente di marine in Libia per proteggere i cittadini americani, con la visione politica di chi rinnova il sostegno a un paese ancora alle prese con i lunghi postumi di una guerra civile e a un governo che deve la sua stessa esistenza agli americani («Lavoreremo insieme con il governo libico per portare davanti alla giustizia coloro che hanno assassinato la nostra gente»).

Nella percezione, da parte degli elettori, le reazioni all’attentato di Bengasi non fanno che confermare i profili dei due sfidanti messi di fronte a una crisi internazionale. Obama insiste sulla sua visione più politica nella gestione di un evento straordinario, come una sfida alla sicurezza americana, e, più in generale, nella relazione con il complicato scenario mediorientale, ancora in grande fermento. Romney appare preda dell’ala più oltranzista del Partito repubblicano e sembra la replica, perfino peggiore, di George W Bush, nel suo primo mandato, telecomandato da personaggi inquietanti come Dick Cheney, la figlia Liz Cheney, John Bolton. Personaggi che lo consigliano perfino, nelle ore che immediatamente seguono una tragedia come quella di Bengasi, di attaccare frontalmente il presidente, contro la tradizione che finora imponeva un’unità formale dietro la bandiera a stelle a strisce e colui che la rappresenta a nome del popolo americano.

Ma, se qualcosa producono, simili sortite, è di confermare l’inadeguatezza del personaggio o, comunque, sembrano rispecchiare lo stato di disperazione che ormai regna nel campo repubblicano, dopo che anche gli ultimi sondaggi rimarcano il distacco acquisito dal presidente democratico dopo la convention di Charlotte (50 per cento contro il 44 di Romney, presso gli elettori registrati, secondo Washington Post). Ancora più significativo, e più allarmante per i repubblicani, è quel che emerge da un rilevamento Reuters/Ipsos sulla direzione del paese. Se ad agosto il 31 per cento degli americani riteneva che il paese è nella giusta direzione, mentre il 64 per cento diceva il contrario, a settembre è il 39 per cento a pensarlo e il 55 per cento a dire che l’America va nella direzione sbagliata: percentuali ancora poco rosee per Obama, ma al tempo stesso le migliori dall’aprile 2010.

Significa che il presidente sta riprendendo quota, come anche dimostra il ritorno di tanti sostenitori ai suoi comizi. Una mobilitazione che fa bene sperare dopo i tanti segnali negativi, anche nella base democratica, nei confronti del presidente/candidato.

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