"Whose Park? Ours!": The Last March on Zuccotti Park

<--

L’ANNIVERSARIO

“Di chi è il Parco? Nostro!”

Ultima marcia a Zuccotti park

NEW YORK – Occupy & disoccupy. Quel che resta di Occupy Wall Street saranno pure gli slogan che infiammano Internet, la piazza virtuale che un anno dopo si accende ancora a ogni sfrucolio della protesta, lo sciopero degli insegnanti di Chicago, Mike Bloomberg, il sindaco miliardario che dice che gli homeless a New York nei rifugi cittadini stanno meglio che al Plaza. Quel che resta di Occupy Wall Street sarà pure l’anonimo blogger che richiama alla lotta citando mica Marx o Marcuse o Marcantonio: ma i Beatles – “I don’t care too much for money / money can’t buy me love”. Sì, il denaro non potrà comprare il loro amore per la rivoluzione. Però quando domattina rimarceranno ancora – e il lunedì 17 rischierà di trasformarsi in un nuovo lunedì nero di Wall Street – non dite che non ve l’avevano detto.

Non dite che non ve l’avevano detto quando li sgombravano da qui, una notte di dicembre di un anno fa, non dite che non l’avevano detto quando urlavano “Whose Park? Our Park!”, “Di chi è il parco? Nostro!”, inteso naturalmente come Zuccotti, che più che parco – lo vedete, adesso che è cordonato di nuovo dalla polizia? – è più che altro uno stradone con quattro alberi intorno, trasformato in accampamento quando la pazza idea di occupare davvero Wall Street si era scontrata contro il muro dei lacrimogeni. Ecco, vedete, qui all’angolo verso Broadway c’era la libreria sociale, più di cinquemila volumi donati da tutta America, c’erano John Steinbeck e per carità Angela Davis ma mica sproloqui che ai nostri tempi sarebbero stati catalogati alla voce Cgdct: Come Giustamente Diceva il Compagno Togliatti.

Dennis Laumann, che è professore dell’Università di Memphis e comunista vero, iscritto al partito ufficiale d’America, anche lui era salito fin qui dalla città che aveva assassinato il sogno di Martin Luther King: sapendo bene di trovarsi accanto non solo ai delusi di Barack Obama ma anche ai meno arrabbiati dei Tea Party. “Due movimenti nati entrambi dalla frustrazione”, spiega adesso Kalle Lasn, il fondatore di Adbusters, la rivista canadese fino ad allora incubo delle multinazionali per aver lanciato il “No Buy Day”, lo sciopero dei consumi. Adesso Lasn annuncia a Repubblica che quel che resta di Occupy potrebbe ritrovarsi in un partito. Ma chi glielo dice a Fernando, Vicente, Angel, Begona, cioè i professorini che qui tutti conoscono solo per nome, i trapiantati spagnoli nelle università Usa che in America hanno portato il seme degli Indignados – chi glielo dice che i ragazzi di Puerta del Sol dovrebbero transoceanicamente unirsi coi nipotini di Sarah Palin?

Ecco, questa qui è invece Trinity Church, la chiesa simbolo all’ombra delle Twin Towers che diventò il tempio dell’11 settembre: anche qui hanno provato a spostarsi i ragazzi di Occupy, cacciati da Zuccotti, da Foley Park e da Thompson Square, dove tutto era davvero iniziato intorno alle birre e ai proclami degli spagnoli. Anche la chiesa alla fine li ha sloggiati. Tutti quei sacchi a pelo allontanavano gli immobiliaristi che coi monsignori di ogni confessione da sempre fanno affari divini: e qui, estrema Downtown, tra Ground Zero e le prime boutique dei quartieri fighetti, da Tribeca in su, c’è ancora tanto spazio per elevare al cielo tante belle torri di Babele. Non sono del resto le costruzioni, come dice il sindaco Bloomberg – accanto alla fabbrica di carta di Wall Street naturalmente – il cuore dell’industria di New York? E allora che cosa vogliono questi ragazzi che parafrasando il nobel Joe Stiglitz denunciano la società dove l’1 per cento possiede tutto e il 99 per cento paga per tutti?

Alla biondina disoccupata che veniva da Worcester, e a Zuccotti ha dormito più di un mese, salgono i brividi quando ricorda la delicatezza con cui Newt Gingrich, l’ex speaker della Camera ai tempi di Bill Clinton e fino a pochi mesi fa pretendente alla nomination di Mitt Romney, ha riassunto la filosofia del movimento: “Vogliono un lavoro? Prima si facciano una doccia”. Chissà se lo ricorderanno i ragazzi che proveranno a marciare ancora, a New York, un anno dopo. E chissà se anche la polizia di Mike Bloomberg, un anno dopo, mostrerà la stessa (diciamo così) durezza degli sgomberi che hanno restituito la piazza a John Zuccotti, l’italoamericano alla cui chiara fama imprenditoriale era stato appunto dedicato quello spazio che in origine aveva il destino già nel nome, Liberty Street – finché si scoprì che il Zuccotti doveva al comune la bellezza di 140mila dollari di tasse arretrate.

Ai giornalisti scesi a Tampa per la Convention di Romney, Brendan Hunt, neppure trent’anni, uno dei leader di questo movimento senza leader, ha detto che a New York avrebbero dovuto imparare dai modi gentili di Chief Jane, la signora Castor alla guida della polizia della Florida che davanti ai ragazzi che assediavano la kermesse, invece che coi manganelli, s’è presentata con un megafono: per discutere. Occupy & disoccupy: la storia, dicono, non si ripete. Un’altra storia è possibile?

(16 settembre 2012)

About this publication