The Beer-Effect Gives America Hope

 

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Posted on October 12, 2012.

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FRANCESCO GUERRERA

Chiamatela «la ripresa della Budweiser». Pochi giorni prima i sorprendenti dati sul calo della disoccupazione Usa usciti ieri, l’americano medio aveva già dato segni di sentirsi più ricco e più contento.

Il messaggio era nella bottiglia. Anzi nelle bottiglie di Budweiser, Miller Light e birre artigianali che il grande pubblico di bevitori americani ha ricominciato a consumare in grandi quantità. Martedì è arrivata la notizia che le vendite di birra erano in crescita per la prima volta dall’«annus horribilis» del 2008.

Tre giorni dopo, il mercato del lavoro ha confermato il progresso, lento ma certo, dell’economia Usa. Il tasso di disoccupazione per settembre è calato, a sorpresa, dall’8,1% al 7,8%, il punto più basso degli ultimi tre anni e mezzo.

La mossa ha fatto piacere ai mercati, agli investitori e a Barack Obama – che tra l’altro è il primo Presidente nella storia degli Stati Uniti ad esseri costruito una mini-fabbrica di birra alla Casa Bianca.

Jack Welch, invece, si è arrabbiato. Il leggendario ex-capo della General Electric, repubblicano di ferro, ha sentito il bisogno di esternare su Twitter che, a suo avviso, i dati erano stati manipolati.

Manipolati dagli uomini di Obama per aiutare il Presidente, in difficoltà dopo il primo dibattito presidenziale con Mitt Romney. «Incredibili questi dati sulla disoccupazione», ha scritto Welch alle masse che lo seguono su Twitter. «Questi qui di Chicago: non sanno fare i dibattiti e allora cambiano i numeri».

L’accusa di Welch è ridicola e completamente priva di tatto: sembra quasi rammaricarsi che milioni di americani abbiano trovato lavoro negli ultimi mesi.

Nonostante ciò, l’uso sconsiderato di 140 battute da parte del grande industriale illustra chiaramente il tono della battaglia sull’economia americana. In questo momento, ad un mese da elezioni presidenziali tiratissime, la guerra non si combatte nei mercati azionari e nemmeno tra i consumatori e i disoccupati Usa.

Lo scontro – gladiatorio e all’ultimo sangue – è nell’arena della politica. Chi dei due candidati può convincere i famosi elettori indecisi – l’ago della bilancia di tutte le presidenziali – che sarà in grado di gestire ed accelerare la ripresa?

Welch su una cosa (e su una cosa sola) ha ragione: il grande oratore Obama è stato sconfitto dal robotico Romney nel primo dibattito ed ha un bisogno disperato di riconquistare il ruolo di favorito.

In teoria, un’economia in via di recupero, con un mercato immobiliare che sta uscendo dal coma e milioni di consumatori che sembrano pronti a ricominciare a spendere (e non solo sulla birra), dovrebbe aiutare il Presidente in carica.

Il tasso di disoccupazione è allo stesso livello di quando Obama traslocò nella Casa Bianca nel gennaio del 2009 ed non c’è dubbio che il peggio sia ormai passato. «Questo è progresso vero», ha detto un economista a una delle grandi banche d’affari di Wall Street. «Con la disoccupazione in discesa, la strada che deve fare Romney per arrivare alla Casa Bianca è in salita».

Gli uomini del Presidente si dicono sollevati ma non cantano vittoria e non solo perché ci sarà un altro rilevamento dei dati della disoccupazione prima delle presidenziali del 6 novembre.

La realtà è che i disoccupati in America sono ancora moltissimi, soprattutto tra le classi medie che decidono le elezioni. Il numero di posti di lavoro creato dall’economia Usa ogni mese è più o meno la metà di quello che la Federal Reserve vuole vedere per dichiarare l’economia in ripresa.

E tutto questo avviene a dispetto del fatto che la banca centrale sta pompando centinaia di miliardi di dollari nell’economia per tenere i tassi bassi, stimolare il mercato immobiliare, e convincere consumatori ed investitori a prendere più rischi con i propri soldi.

«Questo non è il tipo di progresso che la Federal Reserve vuole vedere», ha detto Jay Feldman, un’economista di Credit Suisse, al «Wall Street Journal» ieri.

Per Romney, però, la situazione è difficile. Da una parte, non si può permettere di imitare Jack Welch e dispiacersi per il calo della disoccupazione. Ma dall’altra, le buone notizie economiche indeboliscono lo slogan chiave della sua campagna: non sarò la persona più eccitante del mondo, ma sono un businessman capace di far tornare i conti al Paese, liberandolo dai dilettanteschi professori di Chicago.

Nel prossimo dibattito, Obama ricorderà certo al suo rivale dei «successi» economici della sua presidenza, facendogli pesare il fatto di aver ereditato un Paese in piena recessione dal repubblicano George Bush.

Il parallelo forse più interessante è quello tra Obama e un altro presidente-oratore – Ronald Reagan – che nel 1984 sconfisse il candidato democratico Walter Mondale con un tasso di disoccupazione al 7,2%, più o meno come quello di oggi.

All’epoca, Reagan, che come Obama aveva governato già per quattro anni, riuscì a vincere a dispetto del numero altissimo di senza-lavoro, perché l’economia era in forte ripresa dopo la crisi del 1981-82.

Obama non gode delle stesse condizioni ottimali: la crescita è stentorea e «dopata» dalle iniezioni di liquidità della Fed e la gente comune ha ancora tanta paura del «double dip», un altro tuffo nella recessione.

La direzione, però, è quella giusta per il Presidente in carica. Se Obama dovesse rimanere al potere nonostante le difficoltà economiche e la sconfitta nel primo dibattito, dovrà senz’altro andare nella mini fabbrica di birra e brindare con una pinta «made in the White House».

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