The Paradox of the Euro: Standing Strong Amid Crisis and Fear and Winning the Currency War

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Il paradosso dell’ euro forte resiste fra crisi e paure e vince la guerra delle valute

New York Decine di migliaia di commercianti hanno protestato mercoledì scorso nei pressi del grande bazaar di Teheran contro il governo di Mahmoud Ahmadinejad e contro la brusca svalutazione del rial, la valuta iraniana, che dall’ inizio dell’ anno, per via delle sanzioni internazionali, ha perso due terzi del valore nei confronti del dollaro, di cui un terzo nell’ ultima settimana. Intanto la lira turca si è fortemente indebolita con l’ avvio della rappresaglia militare di Ankara contro il regime del presidente siriano Bashar al-Assad. E anche il dollaro australiano ha fatto uno scivolone dopo la decisione della banca centrale di tagliare i tassi di interessi per contrastare l’ impatto che la flessione dei prezzi delle commodities sta avendo sulla ripresa. La sorte delle monete dei tre paesi – Iran, Turchia Australia – aiuta a ricordare quanto sensibile e imprevedibile sia il Forex (Foreign exchange market), il mercato mondiale delle valute, dove ogni giorno, tra transazioni spot, swap e option, vengono scambiati più di 4mila miliardi di dollari. Eppure per molti mesi questo immenso mercato è sembrato quasi paralizzato dalle incertezze sul futuro e dai dubbi sulle valute principali, a cominciare dal dollaro e l’ euro. L’ anno scorso Wall Street si era convinta che la riduzione del rating degli Stati Uniti deciso da Standard and Poor’ s avrebbe portato, aggiungendosi ai gravi problemi di disavanzo e alle iniezioni di liquidità da parte della Federal reserve di Ben Bernanke, a una sensibile – forse storica – flessione del dollaro. Agli occhi di molti, il biglietto verde appare ancora oggi debole, e di sicuro sta stimolando le esportazioni del made in Usa e ostacolando quelle di Brasile, Corea del Sud e Indonesia, che hanno più volte protestato. Eppure l’ indice del valore del dollaro misurato dalla Fed di St. Louis mostra che dal marzo 2008, cioè dall’ uscita di scena della Bear Stearns, fino alla settimana scorsa, la moneta americana è rimasta pressoché stazionaria, e semmai si è un po’ rafforzata (+3%). Anche per l’ euro gli esperti prevedevano un tracollo. Come poteva non risentire del dissesto greco, della situazione dei conti spagnoli, del calo generalizzato del Pil, delle iniziative della Bce di Mario Draghi, delle spinte centripete nell’ eurozona e persino di molti annunci di una morte precoce? Ma la moneta europea continua a resistere alle aspettative catastrofiste. Giovedì scorso è bastato che Draghi e suoi colleghi riaffermassero l’ “irreversibilità” dell’ Unione monetaria e lasciassero immutati i tassi di interesse, per portare a un rafforzamento della moneta unica. Ma la bonaccia nei mercati valutari potrebbe presto finire: almeno questa è l’ impressione di un numero crescente di operatori e analisti americani, interpellati sui destini a medio-termine del dollaro e dell’ euro. “La moneta americana sta per decollare grazie ai primi segnali di una vera ripresa”, spiega Nicholas Hastings del Dow Jones newswires, che da 20 anni segue le sorti dei cambi. Il ragionamento di Hastings è semplice. Finora la ripresa americana era tutt’ altro che sicura. I tentativi della Fed di aumentare la liquidità del sistema a fini anti-recessivi, con l’ iniezione di oltre 2.000 miliardi di dollari attraverso le operazioni di QE1 e QE2, cioè dei primi due round di quantitative easing , ai quali se ne stanno per aggiungere altrettanti con il QE3 annunciato, hanno avuto ripercussioni sul dollaro. Ma il clima sta cambiando. Un numero crescente di indicatori economici punta a un netto miglioramento dopo cinque anni di crisi. Il mercato immobiliare, che è poi quello che ha scatenato la tempesta finanziaria, è a una svolta. Ad agosto il prezzo medio delle case americane è salito del 4,6 per cento rispetto allo stesso mese dell’ anno scorso. Sempre ad agosto le vendite di case già esistenti sono salite del 7,8 per cento. La richiesta di mutui è andata sù a fine settembre del 16,6 per cento. Intanto le vendite di auto negli Stati Uniti sono tornate ai ritmi pre-Lehman brothers (14,9 milioni di veicoli l’ anno) tanto che Mark Zanda, capo degli economisti di Moody’ s, parla di “resurrezione di un’ industria che era moribonda”, mentre ormai è “competitiva e contribuisce alla crescita”. “In questo nuovo contesto – sostiene Hastings – il dollaro attirerà sempre più i capitali internazionali”. Non solo perché prima o poi la Fed dovrà avviare una stretta creditizia per evitare rischi inflazionisti, offrendo così tassi più alti e convenienti, ma soprattutto perché l’ economia americana appare sulla rampa di lancio “mentre le altre economie battono la fiacca”. E a completare il quadro è anche la vittoria di Romney nel duello televisivo contro Obama. Non è un mistero che il candidato repubblicano sia contrario a ogni incremento delle tasse per bilanciare il disavanzo pubblico e sia di gran lunga preferito da Wall Street e dagli investitori mondiali. L’ emergere di questo nuovo ottimismo sulle potenzialità a medio termine del dollaro non riesce, tuttavia, a spiegare le alte quotazioni dell’ oro e soprattutto a fugare le preoccupazioni di più lungo periodo sulla valuta americana. Il metallo giallo era scambiato la settimana scorsa sui 1783 dollari l’ oncia, vicino al record del 2012 di 1791 dollari. Rispetto all’ euro, l’ oro ha raggiunto il massimo storico (1380). Perché? Come spiegare che nelle ultime sei settimane gli investitori abbiano comprato un miliardo di dollari di prodotti finanziari legati all’ oro? E perché i fondi Etf sull’ oro, come il Spdr Gold shares, che è il più grande, stanno registrando consistenti aumenti trimestrali? L’ impressione è che l’ impennata sia legata a timori inflazionistici. Le azioni di stimolo lanciate ormai da tutte le banche centrali potrebbero portare a un surriscaldamento dell’ economia. Certo, il livello dei prezzi è ancora sotto controllo e non si intravvedono spirali pericolose, almeno per il momento. Ma è chiaro che la situazione cambierà nei prossimi anni: e forse persino prima del previsto se l’ economia americana dovesse ricominciare a tirare davvero. D’ altra parte, quanto potrà durare l’ egemonia del dollaro? Per quanto tempo ancora la Cina si accontenterà di far lievitare le sue riserve di biglietti verdi (3200 miliardi di dollari) senza protestare? L’ ex-ministro del tesoro americano John Connally ha detto una volta una frase subito diventata celebre: “Il dollaro è la nostra valuta e il vostro problema”. Come dire: sono gli altri paesi, non gli Usa, che devono fare i conti con la supremazia della moneta americana. Ma Pechino mostra segni di impazienza, emersi con chiarezza la settimana scorsa a un convegno promosso nel Bahrein dall’ Iiss di Londra (Istituto internazionale di studi strategici). E la Cina sta già avviando silenziosamente una serie di iniziative per favorire gli scambi con la sua valuta, lo yuan, con l’ obiettivo di arrivare a un sistema monetario internazionale basato su tre valute – dollaro, euro, yuan – e non solo sul biglietto verde.

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