WASHINGTON ABBIAMO avuto paura di sperare, ma l’America si è dimostrata ancora una volta migliore dei nostri timori.
La rielezione di un uomo chiamato Barack Hussein Obama, in una situazione economica micidiale, ci dice che il grande laboratorio umano, culturale, etnico, democratico chiamato Stati Uniti funziona ancora.
E produce futuro. L’assalto del revanscismo di destra alla Casa Bianca, travestito da «liberismo» contro «statalismo», da «meno tasse» per dire «niente Obama» e per nascondere la propria natura odiosa, era stato costruito su una manovra a tenaglia fra economia, su un fianco, e terrori razziali sull’altro. La sua è stata dunque la doppia disfatta di un passato che avrebbe voluto fermare il cambiamento e riportare l’orologio indietro, alla cultura della Piantagione di cotone e al laissez fare sciagurato che produsse il crac del 2008.
Non è nata soltanto dal voto dei metalmeccanici dell’Ohio e del Michigan, dei giovani più istruiti, delle donne offese dai fanatici, dall’astio ad hominem. È nata dal non avere capito che la fabbrica umana e culturale che da 250 anni produce quella che noi chiamiamo America aveva continuato a macinare. E che il volto dell’alieno alla Casa Bianca è sempre più il volto di questa nazione di nazioni. Obama è la «nuova normalità», non l’anomalia da cancellare come una vergogna. L’attacco alla estraneità di quello che un tempo si sarebbe chiamato sprezzantemente un «meticcio» è diventato così il boomerang che è tornato addosso a chi lo aveva lanciato. La debolezza di Obama è stata la sua forza, capace di scavalcare anche dati economici che in passato avevano sempre distrutto i presidenti, primo fra tutti quella disoccupazione quasi all’8 per cento, soglia tradizionalmente fatale. Ma la miopia rancorosa dell’America «maschia, anziana e bianca», che neppure le capriole centriste di Romney erano riuscite a mascherare dopo la affannosa corsa a destra nelle primarie, ha impedito a un partito chiuso sotto «una piccola tenda» di vedere ciò che era avvenuto.
Che la demografia conta più dell’ideologia e che l’America sta mutando faccia, dunque cultura.
Diceva un vecchio e classico slogan della Oldsmobile, quando volle rifarsi l’immagine stantia, che questa «non è più la Oldsmobile di tuo padre».
L’America che ha formato la coalizione obamania non è più l’America dei padri e dei nonni, alla quale la destra rimane aggrappata. Non è neppure l’America di Reagan, che era riuscita a comporre un blocco elettorale dei «cappelli duri», gli operai, con la destra cristiana del Sud irriducibile, i «pionieri» western e il rancore del contribuente che vede le proprie tasse usate per mantenere quelle che Reagan chiamava «le regine del welfare», le donne (quasi sempre di colore) che guadagnavano di più sfornando figli che andando a lavorare.
È riemersa invece la coalizione obamania e si è confermata dopo quella vittoria del 2008 che poteva essere stata effimera. I segnali sono diventati visibilissimi nel voto periferico rispetto alla grande corsa per la Casa Bianca.
Due stati, Maine e Maryland, hanno approvato il matrimonio gay, anatema.
Altri due, Colorado e Washington, hanno legalizzato la marijuana non soltanto per uso terapeutico.
Tammy Baldwin è la prima senatrice dichiaratamente lesbica. Diciotto donne siedono in Senato, mai tante nella storia americana, e senza necessità di «quote rosa» o di scelte paternalistiche. La Florida ha respinto la proposta di togliere i finanziamenti pubblici alle cliniche dove si pratica anche l’aborto e che sono la prima, unica linea di assistenza sanitaria per migliaia di donne. I due candidati al Senato che avevano tuonato contro l’aborto anche in caso di stupro o incesto, in Indiana e Missouri, sono stati seccamente sconfitti e questo in due stati dove Obama ha perduto.
Ma il perno demografico attorno al quale ruota ora la coalizione obamiana sono gli immigrati legali dal sud della «Frontera» dalle altre Americhe. È stato il loro voto a spostare la lancetta dell’orologio elettorale verso Obama.
Di nuovo, la miopia della destra, abbarbicata alla «lotta all’immigrazione», senza nessuna prospettiva per i milioni di «illegali» che lavorano e non delinquono, ha impedito di vedere quello che pure già sapevano benissimo i Bush.
George « Dubya », l’ex governatore del Texas e poi presidente, fu scelto dal partito proprio perché era risultato essere il più gradito dei repubblicani all’universo «latino». Mentre il fratello Jeb, sposato con una donna di oltre «Frontera», vinceva il governatorato della California e forse per questo avrà un avvenire, in un partito repubblicano allo sbando.
La coalizione elettorale della Nuova America, che ha ridotto il vantaggio repubblicano alla Camera prodotto dal vento furioso del «Tea Party» in chiara ritirata, come tutti i movimentismi arruffoni, e ha accresciuto la maggioranza democratica al Senato, non è naturalmente anche una maggioranza parlamentare.
Questa, indispensabile per evitare che gli Stati Uniti precipitino, fra due mesi (anche loro) nel «precipizio fiscale» di tagli automatici da 1500 miliardi di dollari, sarà ora il compito, la fatica di Obama, insieme con la ricompensa legislativa peri «latinos», ormai il 40% del voto democratico in molti Stati. Richiederà doti che non ha mostrato nel primo quadriennio, astuzia alla Clinton, capacità di manovra, umiltà nel riconoscere che anche la Vecchia America ha il diritto di essere ascoltata, essendo comunque il 49% dell’elettorato.
Ma questa è politica, è amministrazione, è il «fare leggi e salsicce» nella fabbrica del governo, del «dare e avere».
Oggi, rimane la gioia di vedere che l’esperimento chiamato America continua.
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