Edited by Peter L. McGuire
Meno lacrime più verità
Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, sudore e lacrime. Ve lo immaginate Winston Churchill che piange pronunciando queste memorabili parole di fronte alla camera dei comuni il 13 maggio del 1940 mentre i motori dei cacciabombardieri nazisti rombano sul cielo d’Inghilterra?
Assolutamente inconcepibile. Quel grande leader della democrazia liberale – il che non gli impediva di essere razzista, alcolista, bellicista e verosimilmente sessista – un sigaro di grossa taglia sempre in una mano e nell’altra un bicchiere di whiskey, non avrebbe mai potuto né voluto piangere in pubblico (ammesso pure che piangesse in privato) perché gli uomini come lui le lacrime le promettevano al loro popolo, alla loro Nazione, non le spendevano e spandevano per sé. Se gli statisti che, nel corso del Novecento, hanno prima distrutto e poi ricostruito l’Europa e l’Occidente si fossero abbandonati al pianto nei momenti commoventi della loro storia, avrebbero passato buona parte del secolo a piangere. Soprattutto, se avessero pianto, non sarebbero stati degli statisti.
Barack Obama, il Presidente degli Stati Uniti d’America, il comandante in capo del più potente esercito del mondo, invece, piange in pubblico. Si lascia andare alle lacrime davanti ai volontari della sua campagna elettorale, nel quartier generale di Chicago, il giorno dopo la sua rielezione e subito Jim Messina, capo dello staff elettorale, si affretta a mettere in rete il video pubblicizzandolo a livello globale.
Non potrebbe essere più netta la differenza tra Obama e Churchill eppure, fate attenzione, è pronunciando le medesime parole che, allora come oggi, si piange o non si piange. Obama si commuove nell’istante in cui nomina l’orgoglio («I’m proud of you», dice ai suoi ragazzi nel momento fatidico), la fiducia in se stessi, la speranza nel futuro, piange nell’attimo in cui si sente parte di una comunità al cospetto della Storia («Il vostro lavoro rimarrà nei libri di storia»).
Che cosa abbiamo perduto e che cosa guadagnato con la trasformazione della leadership dal modello Churchill a quello di Obama? Abbiamo perduto il Padre – in questo caso il Padre della Patria – e guadagnato una figura meticcia – anche sul piano razziale Obama la incarna alla perfezione – cui ancora non sappiamo dare un nome. In questi ultimi decenni la società si è femminilizzata, la politica si è maternizzata (stando ai codici del vecchio mondo maschilista, sessista e patriarcale, sia ben chiaro), vivono entrambe in un amnio dominato dalla prevalenza degli affetti, alla cui mozione sempre puntano i virilissimi signori dei media e perfino quelli della guerra, un amnio di soddisfazioni allucinatorie e immediate dei nostri bisogni che ci fa psicologicamente regredire in quanto massa verso i primissimi stadi dell’evoluzione infantile. Questo è stato il gonfiarsi a dismisura del debito nelle democrazie occidentali degli ultimi decenni: l’ostinazione nel voler dare al pubblico la tetta.
Ci suscitano molta simpatia i nostri leader politici piangenti (ne abbiamo visti una sfilza anche da queste parti). Sarebbe, forse, però, più opportuno se ritirassimo loro un pochino della nostra affettuosa simpatia e li richiamassimo alle responsabilità che un tempo furono dell’archetipo paterno: essere forti ma giusti, avere un progetto, un carattere, un’intenzione, rinunciare al godimento immediato in nome di un futuro possibile, lasciarsi guidare da una decisione etica nel proprio incerto cammino in questo mondo, riaffermare il senso della continuità che vince il tempo. Forse si può tentare di fare tutto questo senza sessismo, senza bellicismo, senza razzismo e senza alcolismo. Di certo la prima cosa che dovrà fare Barack Obama, questo grande leader debole, questa promessa non mantenuta, sarà di togliere di bocca all’America e a tutto l’Occidente la tetta del debito.
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