La spinta di rinnovamento a livello globale, che la riconferma elettorale del presidente Barack Obama e la designazione per i prossimi dieci anni del futuro leader cinese Xi Jinping avevano indotto a prevedere, si è quasi improvvisamente spenta. L’essenziale istanza di controllo del dominante, ancorché politicamente delegittimato, nuovo Leviatano della finanza speculativa mondiale, pur costituendo il primario indispensabile intervento per la soluzione della crisi, non sembra essere minimamente preso in considerazione né dal presidente Obama né, dopo aver ascoltato il discorso del presidente uscente al Congresso del Partito comunista, della leadership cinese.
La grave depressione economica non ha dunque trovato per ora alcuna soluzione. È pur vero che la riconferma per un secondo mandato al presidente Obama potrebbe far sperare in un sostanziale cambiamento di politica da parte degli Stati Uniti, che sono tra l’altro oltre che il Paese dal quale ha avuto origine la crisi, anche il Paese nel quale si è immediatamente cercato di individuare i possibili rimedi. Infatti, il pur prolisso Dodd-Frank Act, che doveva riformare la grande finanza americana e costituire anche un esempio di riforma per gli altri Paesi, è stato solo in piccola parte attuato, tralasciando ad esempio l’applicazione della cosiddetta Volker’s rule, diretta a impedire alle banche la speculazione finanziaria sui derivati e la creazione di strumenti finanziari ad alto rischio. Né diversa collaborazione è stata ottenuta al riguardo da altre autorità di vigilanza, come la Sec, che ha anzi autorizzato l’uso da parte delle banche d’investimento dei loro modelli matematici per verificare il rapporto tra capitale e strumenti ad alto rischio in portafoglio, diventando così un complice nel causare la crisi finanziaria globale. Se pur non può correre dubbio che la riconferma di Barack Obama, rispetto al suo contendente Mitt Romney debba sotto questo aspetto essere considerata positiva, è altrettanto vero che l’esito delle elezioni americane, che confermano alla Camera la maggioranza dei candidati repubblicani, rende assai difficile qualunque tentativo di seria, concordata riforma del Leviatano finanziario.
Non è un caso che le prime dichiarazioni del neopresidente siano soprattutto rivolte a quello che pur appare il più grave e immediato problema politico da affrontare, vale a dire il cosiddetto “fiscal cliff”. Il precipizio fiscale si creerebbe qualora non si intervenisse entro la fine dell’anno a porre rimedio alla scadenza degli sgravi fiscali introdotti da Bush e prorogati da Obama. Ciò provocherebbe un aumento notevole della tassazione sia indiscriminatamente per i cittadini, sia per le imprese grandi e piccole, aumento che, accompagnato ai programmi di tagli alla spesa pubblica, porterebbe a una drammatica riduzione del prodotto interno lordo, stimata al 4%, con un intollerabile incremento della disoccupazione, una crescita negativa e una recessione economica inarrestabile. Insomma, i soliti effetti dell’austerity.
Problemi dunque di debito pubblico, bilancio dello Stato, politica interna, che paiono ben lontani da qualunque vocazione di vere riforme del sistema attuale dell’arricchimento e della sovranità dei protagonisti della indisturbata scena finanziaria internazionale. Non è inoltre purtroppo un caso che mentre il presidente Obama ha annunciato che, come promesso nella campagna elettorale, alzerà le tasse ai più ricchi, un articolo dell’Economist dell’altro ieri ha dedicato all’argomento della povertà ben nove pagine. Se nel programma di Mitt Romney, che candidamente aveva dichiarato di non essere affatto interessato al problema dei molto poveri, nulla c’era sull’argomento, ben poco si trovava anche nel programma elettorale del presidente, dove il problema della povertà è menzionato una sola volta; Obama poi cautamente parlò dei poveri come di «coloro che aspirano alla classe media». Tutto ciò in un Paese dove la povertà giovanile è più alta di quella giapponese, canadese, e di tutti i Paesi europei, con la sola eccezione della Romania.
Una possibile riforma della sovranità del Leviatano finanziario è infine ritardata dalle contestuali dichiarazioni delle autorità americane, capeggiate dalla Federal Reserve. Questa ha rinviato le decisioni relative alle richieste del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, il cosiddetto Accordo “Basilea 3”, che impone di rafforzare il patrimonio primario delle banche, adeguando il capitale alle attività ponderate in base al rischio, e alle possibili emergenze derivanti da crisi, aumentando tra l’altro sistemi di trasparenza e di informativa.
Insomma, la conclusione sul valore omeopatico e gattopardesco delle elezioni sembra qualche volta decisamente veritiero.
Se al di fuori degli Stati Uniti è impossibile al momento, con la Cina ancora troppo assorbita dai problemi interni, individuare un attore globale capace di proporre una strategia di uscita dalla crisi, non resta ancora una volta che sperare che l’Europa riesca essa stessa a creare una solida istituzione unitaria, politica, monetaria e fiscale, ancorata ben più degli Stati Uniti alla lotta alle disuguaglianze, e a diventare promotore di riforme mondiali condivise.
Un grave guaio sarebbe invece, ad evitare asimmetrie di regolamentazione fra i vari Paesi, abbandonarsi supinamente al peggio, questa volta volutamente globalizzato.
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