Female US Soldiers Fight for the Rightto Serve on the Front Lines

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“So bene che sto violando la regola numero Uno di ogni Marine: non contestare l’autorità, non lavare i panni sporchi in pubblico, seguire sempre le regole. Ma lo faccio per una buona causa. Per le donne come me che hanno combattuto e combattono nel nome degli ideali degli Stati Uniti d’America. E non vedono riconosciuto il lavoro svolto”. Il tenente Colleen Farrell punta a entrare nella Storia dalla porta principale e per questo non ha paura di rischiare: insieme a tre colleghe, due giorni fa ha iniziato una causa contro il dipartimento della Difesa americano perché riconosca alle militari il diritto di combattere in prima linea, finora negato dal regolamento delle Forze armate.

“È una regola assurda – spiega il tenente al telefono – sia in Iraq che in Afghanistan noi donne abbiamo combattuto. Ma questo non si deve dire, perché formalmente gli Stati Uniti vietano alle loro donne di battersi in prima linea”.

Il tenente Farrell parla con la precisione che solo l’esperienza diretta può dare: durante i suoi mesi in Afghanistan, ha guidato un Female engagment team, una delle squadre tutte al femminile messe su dai Marines per guadagnare la fiducia della popolazione femminile, allo scopo di migliorare l’assistenza ai civili e di raccogliere informazioni utili sull’attività dei ribelli da passare poi ai comandi. “Io e le mie donne – racconta – siamo finite sotto il fuoco e siamo state esposte al pericolo degli Ied, gli ordigni improvvisati che hanno ucciso centinaia di militari. Abbiamo vissuto negli accampamenti più remoti insieme ai colleghi maschi, risposto al fuoco con loro, fatto le stesse esercitazioni, usato le stesse armi. Ma questo oggi nessuno vuole riconoscerlo. Ora basta, siamo stanche: vogliamo un cambiamento, e deve succedere adesso, prima che la gente si dimentichi di cosa è accaduto in Iraq e Afghanistan”.

Gli ultimi due conflitti hanno portato nelle Forze armate americane cambiamenti epocali: uno dei maggiori è stato proprio che le donne, anche se formalmente escluse dalla prima linea, si sono ritrovate nei fatti a combattere alla stessa maniera dei compagni maschi. Conseguenza questa, spiegano gli esperti, di conflitti che raramente hanno avuto campi di battaglia chiari e definiti, e che invece si sono combattuti nelle strade delle città, fra i viottoli di campagna, nei vicoli sterrati dei villaggi.

Per capire l’entità della questione, basta scorrere i curricula delle donne che, insieme a Farrell, hanno iniziato la causa: tutte loro hanno servito in Iraq o Afghanistan, alcune più di una volta. Due di loro hanno ricevuto la Purple heart, la più antica onorificenza militare Usa, riservata a chi è ucciso o ferito in combattimento, tutte si sono ritrovate sotto attacco, costrette a rispondere al fuoco da veicoli parzialmente distrutti da Ied o da elicotteri danneggiati da missili.

La loro non è solo una questione di principio: a chi formalmente non può andare in prima linea sono precluse oltre 200mila posizioni, con pesanti ripercussioni sulle possibilità di carriera e di aumento dello stipendio.

Una delle quattro militari protagoniste della causa, il capitano Zoe Bedell, ha lasciato il servizio attivo dopo essere stata costretta ad occupare una posizione da logista, perché quelle di prima linea le erano precluse. «Casi come questi sono il frutto di regole che non corrispondono più alla realtà di oggi: è tempo di cambiarle», conclude il tenente Farrell.

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