Susan Rice Withdraws as Secretary of State Candidate

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Susan Rice ritira la candidature a segretario di Stato americano

Il presidente Usa ha accettato la sua decisione. “Sono profondamente rammaricato per gli attacchi che ha subito, attacchi sleali e ingannevoli”, ha detto Obama. Era finita al centro delle accuse dei repubblicani per il modo in cui aveva gestito la vicenda dell’assalto al consolato americano a Bengasi in cui morì l’ambasciatore in Libia, Christopher Stevens. Ma il fatto che si sia messa da parte, ha riaperto il dialogo tra repubblicani e il presidente Americano

NEW YORK – Non ci sarà un’altra Rice al Dipartimento di Stato. L’ambasciatrice all’Onu Susan Rice ritira la propria candidatura al posto che Hillary Clinton sta per lasciare e che fu già di Condoleezza. È una azione irrituale perché è la stessa Rice a formalizzare in una lettera a Barack Obama l’uscita dal totonomine: troppe polemiche sul suo nome, i repubblicani continuavano ad accusarla di aver coperto la verità su Bengasi, tacendo sotto elezioni il ruolo di Al Qaeda e dando la colpa al film americano anti-Islam.

Ma il ritiro dell’ambasciatrice è la mossa più diplomatica che l’amministrazione di Barack potesse mettere in atto per ricucire con l’opposizione. Poco prima che la lettera fosse spedita, e le “dimissioni” da candidata fossero accettate da Obama in uno statement, la Casa Bianca ha fatto trapelare che la scelta del prossimo capo della Difesa (anche Leon Panetta è in scadenza) possa addirittura cadere su un ex senatore repubblicano, Chuck Hagel.

E mentre si andava disegnando il nuovo risiko dell’amministrazione, un altro annuncio da 1600 Pennsylvania ha acceso nuova luce su tutta l’operazione: il presidente ha fatto sapere di aspettare la visita di John Boehner, lo Speaker della Camera che qualche ora prima aveva ribadito l’ennesimo no alla proposta di Obama sul fiscal cliff.

La testa di Susan dunque merce di scambio per l’accordo più difficile dell’anno? “Se nominata, sono convinta che il processo di conferma davanti al Congresso sarebbe lento, causerebbe problemi e sarebbe di danno a te e alle nostre urgenti priorità nazionali e internazionali: il paese non lo merita” scrive la Rice a Obama nella lettera in cui “rispettosamente” gli chiede di non considerarla più, rilanciando così le quotazioni di John Kerry per il posto.

È una decisione sofferta ma evidentemente concordata. Barack aveva difeso con veemenza e pubblicamente la scelta di Susan, vent’anni di esperienza sul fronte della politica estera e dei diritti umani, dall’amministrazione di Bill Clinton in poi. E di fronte agli attacchi più spietati, in testa quelli del suo ex sfidante John McCain, Obama aveva fatto capire senza

mezzi termini che toccare Susan era toccare lui stesso: “Dovranno vedersela con me”. Chiaro dunque che al presidente toccava tenere il punto: e a lei aiutare l’amministrazione ad uscire dal vicolo cieco.

La maledizione di Bengasi, con la morte dell’ambasciatore Chris Stevens, ha rischiato di travolgere l’amministrazione e le stesse elezioni. Prima con le accuse, fatte proprie da Mitt Romney in campagna elettorale, di aver coperto il ruolo di Al Qaeda. E poi, dopo che la polemica aveva toccato anche la Cia, poi autotravolta dallo scandalo del suo capo, l’ex generale Petraeus, fedifrago confesso, ha rischiato appunto di bloccare l’intero rimescolamento di carte che Obama si prepara a fare: dal Dipartimento alla Difesa fino al Tesoro dove presto dovrebbe lasciare anche Tim Geithner.

Politica estera e politica economica si intrecciano adesso proprio nel rush finale. Nella sua dichiarazione Obama ha difeso Susan, ha condannato “gli attacchi scorretti e fuorvianti di queste settimane” e ha ricordato che la Rice continuerà nel suo prezioso ruolo di ambasciatrice all’Onu (anche se già si vocifera di una promozione a Consigliere per la Sicurezza) e, sottolineando come “la sua decisione dimostra la forza del suo carattere e il suo ammirabile impegno a ergersi al di sopra delle politiche del momento, per mettere i nostri interessi nazionali sopra

a ogni cosa”.

Ma “le politiche del momento” sono già al lavoro. Incassata la vittoria morale dell’addio di Susan, il capo dell’opposizione, John Boehner, è tornato subito a bussare alla Casa Bianca per incontrarsi a discutere ancora una volta del benedetto fiscal cliff. Senza l’accordo prima di Natale, scatteranno i tagli al bilancio e gli aumenti di tasse che potrebbero riportare gli Usa, e il mondo intero, in una nuova recessione. Un costo altissimo: riuscirà il sacrificio dell’ambasciatrice, e la ciliegina della Difesa a un ex repubblicano, ad evitare agli Usa l’insopportabile pena?

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