Si chiama Shotaro Tanaka, Il mio vicino di casa . È giapponese, trentenne, ha una moglie carinissima e due figli deliziosi. Lui lavora in banca, facciamo due vite molto diverse, gli incontri avvengono di solito in ascensore o sul pianerottolo, e sono sempre molto gradevoli. Tanaka è di un gentilezza estrema, non smette mai di scusarsi perché i suoi bambini fanno chiasso (e non è vero). È arrivato qui solo da un anno e già si è completamente innamorato di New York. Oltre al Giappone ha vissuto molto a Hong Kong, abbiamo quindi un pezzo di vita asiatica in comune. Ma quando parliamo della nostra vita a Manhattan c’illuminiamo dello stesso entusiasmo. New York è speciale per questo: è una metropoli che riesce a far sentire “a casa” in poco tempo persone diversissime, etnicamente e culturalmente, per biografia e stile di vita. Ognuno si prende di New York la parte che vuole, e la riconosce come sua. È difficile sentirsi fuori posto, tantomeno straniero. Questo, in un certo senso fa parte della storia di questa città fin dalle origini. Ma un elemento nuovo è affiorato solo negli ultimi due decenni. New York è diventata una città mite. Per quanto possa avere dei ritmi di lavoro e di vita stressanti – per non parlare dei livelli di decibel – in un certo senso è una città “pacioccona”, che sembra avere adottato come filosofia il “vivi e lascia vivere”. Questo cambiamento mi è tornato in mente andando a vedere un documentario terribile, The Central Park Five. È la storia vera di un orrendo delitto commesso a Central Park: la sera del 19 aprile 1989 una giovane donna bianca, Trisha Meili, fu selvaggiamente aggredita, brutalizzata e violentata mentre faceva jogging. Rimase a lungo fra la vita e la morte, prima di recuperare miracolosamente. Il delitto di Central Park sconvolse la città. La polizia era sotto una pressione tale, da parte dell’opinione pubblica, dei media e dei politici, che “s’inventò” i colpevoli. Cinque adolescenti neri furono arrestati, solo perché quella sera erano stati in giro per il parco a schiamazzare e fare bravate giovanili. Nel corso di interrogatori durissimi, al limite della tortura psicologica, gli vennero estorte confessioni (inverosimili, inconsistenti, piene di contraddizioni). Condannati al carcere, ci volle qualche anno perché saltasse fuori il vero colpevole a scagionarli. Quella vicenda è rimasta impressa nella memoria dei newyorchesi. Eppure sembra passato un secolo. Non solo perché adesso la città è molto sicura. Il documentario The Central Park Five restituisce una New York dove ogni gruppo etnico si sentiva circondato dall’ostilità degli altri, in stato di assedio, coi nervi a fior di pelle. Un’atmosfera quasi incomprensibile, per chi viva nella New York di oggi. Non a caso, New York è una delle città meno armate d’America. E nel dibattito sulle armi il “nostro” sindaco Michael Bloomberg è all’avanguardia, conduce una campagna nazionale per chiedere restrizioni molto più severe. La “geografia della paura” oggi è completamente rovesciata. Se si mette insieme lo stillicidio delle sparatorie e stragi degli ultimi anni, prevalgono di gran lunga i piccoli centri: quell’America della provincia “tranquilla e addormentata”, dei sobborghi con villette, dei Rotary Club, dei vicini che si conoscono per nome e s’incontrano a messa tutte le domeniche. In quella provincia profonda hanno messo le radici delle leggende terrificanti: c’è chi si arma perché è convinto che dovrà combattere per la propria libertà contro uno Stato oppressivo e totalitario (il comunista Barack Obama). La paranoia che viaggia su Internet trova in quelle zone un terreno molto più fertile. L’America urbana e metropolitana è diventata negli ultimi anni la più civile, la più pacifica: e fu quella che venne sconvolta da scontri razziali furibondi negli anni Sessanta, Settanta. È una storia molto bella, in fondo. Perché dimostra che anche i cambiamenti più radicali sono possibili, a volte perfino “facili”. Nessun newyorchese oggi s’interroga su quando, come, perché è stato possibile trasformare la psicologia di questa città, ribaltare i rapporti di forze tra la paura e la fiducia. Quella che un tempo era una giungla d’asfalto, una metropoli inquietante per la massificazione e l’anonimato, oggi è una città più tollerante e tranquilla, con i nervi più saldi di tanti centri di provincia. Non è solo una questione di benessere economico: perfino durante l’ultima recessione gli indici di criminalità sono rimasti inchiodati ai minimi storici. Peraltro, come New York si può dire che siano amichevoli e rassicuranti anche Boston e Washington. E sull’altra costa San Francisco. Perfino Los Angeles, toh (mi voglio rovinare). Insomma la “costruzione della fiducia” tra vicini di casa, è una cosa possibile, perfino partendo da livelli di diffidenza patologici come quelli del 1989. Ventiquattro anni dopo quell’orrendo delitto, adesso io e Shotaro Tanaka facciamo jogging a Central Park alle dieci di sera, in mezzo a una rassicurante folla di altri corridori.
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