Obama-Netanyahu, una relazione complicata
Lunedì, l’inizio in pompa magna del secondo mandato di Barack Obama, salutato da una folla meno numerosa di quattro anni fa ma, in compenso, rinfrancato dai sondaggi “di approvazione” più alti dacché è alla Casa Bianca.
Ieri il voto che consegnerà per la terza volta la leadership d’Israele a Benjamin “Bibi” Netanyahu, accompagnato dal probabile successo di Naftali Bennett, capo di Habayit Hayeudi, il nuovo partito che scavalca a destra il Likud e trova larghi consensi tra i coloni. Dunque, da un lato un Obama più forte, un presidente non più condizionato dall’assillo di dover essere rieletto; dall’altro, un Bibi ancora più determinato nel perseguire quelle politiche “muscolari” che nel corso del primo mandato obamiano hanno alimentato un crescente ed evidente contrasto tra America e Israele. Al punto tale che il premier israeliano tifava apertamente per il candidato repubblicano Mitt Romney, nella sfida presidenziale. Mentre il suo amico e finanziatore, il magnate dei casinò Sheldon Adelson, investiva cento milioni di dollari per una campagna direttamente mirata alla sconfitta elettorale di Obama. Lo stesso Adelson ha sostenuto attivamente la campagna di Bibi, anche attraverso il quotidiano gratuito Yisrael Hayom, il giornale con la massima diffusione in Israele. Secondo il quale peraltro, Obama avrebbe cercato di «interferire nelle elezioni israeliane ». Se l’ha fatto, ha ottenuto il risultato opposto, visto che il Likud va forte anche per le posizioni intransigenti di Bibi sul fronte palestinese e su quello iraniano e cedevoli nei confronti dei coloni, sfidando l’aperto dissenso dell’amministrazione americana e dell’Europa.
Sta di fatto che tra i capi dei due paesi storicamente alleati non corre buon sangue. Tra i due c’è una “dysfunctional relationship”, una «complicated relationship», come rileva l’editorialista di Bloomberg, Jeffrey Goldberg, che di recente ha raccolto le confidenze di Obama su Bibi e su Israele. Secondo il presidente statunitense, «Israele non sa quali sono i suoi migliori interessi». Ad ogni annuncio di un nuovo insediamento Netanyahu conduce il suo paese lungo un percorso che lo porta al quasi totale isolamento. E sul fronte dei rapporti con i palestinesi, Obama considera Bibi «un politico codardo», «un leader essenzialmente senza avversari, che ciononostante non vuole guidare o spendere il suo capitale politico per far avanzare la causa del compromesso».
Obama non intende, con un interlocutore così, mettere in gioco il peso della sua presidenza impegnandosi in un faticoso quanto inutile lavoro politico e diplomatico teso a ridare slancio al negoziato israelo-palestinese. Nel primo mandato, il dossier è stato interamente gestito da Hillary Clinton, che però ha fatto poco o niente. Nel secondo mandato, a occuparsene sarà il nuovo segretario di stato John Kerry, che è animato da un forte interesse a riprendere in mano la questione. Però è guardato con sospetto dai governanti israeliani, quasi quanto il suo futuro collega al Pentagono, Chuck Hagel, considerato alla stregua di un nemico di Israele. E anzi, proprio la scelta di Kerry e Hagel ha ulteriormente irrigidito la dirigenza israeliana nei confronti di Obama.
Tutto lascia pensare a un periodo mai visto prima, di irriducibili incomprensioni tra i due alleati strategici. Sarà davvero così? O prevarrà il realismo politico? La voce di un incarico speciale a Bill Clinton o a Colin Powell per il Medio Oriente fa immaginare uno scenario più positivo. Così come l’ipotesi, caldeggiata con forza dal Washington Post, di un reset nelle relazioni Usa-Israele facilitato da un governo di coalizione del Likud, non con l’estrema destra, ma con le forze di centro sinistra. Se non lo farà «Netanyahu si ritroverà isolato sia nel suo stesso governo sia internazionalmente».
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