Wall Street, the Happy Island (or Neverland)

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Ci vorrebbe Edoardo Bennato per raccontare il nuovo record raggiunto dal mercato azionario americano questa settimana. L’isola felice della Borsa Usa è proprio l’isola che non c’è, un’utopia dei mercati che non riflette la situazione economica della gente comune, i malesseri politici in Europa, America e Cina, e nemmeno il punto di vista di aziende ed imprenditori.

Ero al telefono con uno dei pochi traders che è ancora nella vecchia Borsa di New York – e non davanti ad un computer nel New Jersey o alle Hawaii – martedì mattina, quando l’indice guida dei mercati mondiali Usa, il Dow Jones, ha passato il record di 14164.63 punti . Mi aspettavo un’esplosione di gioia, con altri operatori che gli avrebbero strappato la cornetta per gridare la loro esultanza. Sotto sotto, speravo di essere invitato al party del record, con champagne e caviale per celebrare un momento storico. Ed invece c’è stato un lungo momento di silenzio e poi un sospiro, forse sollievo, forse noia. «Vabbe’… vedremo», mi ha detto il mio trader. «Vedremo». Né grida, né inviti, né caviale.

Un giorno qualunque nella vita dei mercati.

Una reazione così sarebbe stata incredibile nell’ottobre del 2007, quando il Dow Jones raggiunse il record precedente. Ma quello era prima. Prima della crisi finanziaria, prima della Grande Recessione che ha fatto perdere il lavoro e la casa a milioni di americani. Prima del crollo di un sistema finanziario che ha paralizzato l’economia mondiale. Prima. Gli eventi degli ultimi cinque anni e mezzo hanno reso mercati, investitori e risparmiatori più tristi e diffidenti, meno pronti a stappare lo champagne.

È un peccato perché la ripresa dei mercati azionari Usa è stata straordinaria. Il Dow Jones è più che raddoppiato dal marzo del 2009, subito dopo la crisi, ed è aumentato di più del 9% dall’inizio dell’anno. Ci sono voluti solo mille e quattro giorni lavorativi per battere il precedente primato – un passo velocissimo se si pensa che dopo la Grande Depressione, il Dow Jones andò dal 1929 al 1954 senza toccare un record.

Le statistiche non sono fine a se stesse. In America e nel mondo, il valore dei mercati conta. Gran parte dei risparmiatori investono in azioni, sia direttamente sia attraverso fondi pensione. Quando i mercati aumentano, l’effetto è simile alle slot machines di Las Vegas: i giocatori diventato più ricchi nello spazio di pochi minuti senza veramente fare granché (purtroppo, il meccanismo funziona al contrario quando i mercati crollano). Gli economisti lo chiamano «effetto-ricchezza», un senso di benessere finanziario che aiuta la psicologia dei consumatori e la voglia di fare delle aziende.

Ma se l’effetto c’è, per ora non si vede. Le cicatrici della crisi sono ancora fresche nella mente e nel portafogli di Joe and Jane Blogg (i signori Rossi made-in-Usa) per farli ritornare a spendere e spandere quando vedono che il Dow Jones è ad un nuovo record. E non è solo un problema di psicologia di massa. Gli stessi fattori che hanno portato a questo ritorno di fiamma del mercato azionario sono anche alla base dello scetticismo di operatori ed investitori. C’è un solo grande deus ex machina nel miracolo del Dow Jones e si trova a Washington, dentro ad un palazzone grigio e pesante che sembra una fortezza medievale: la Federal Reserve.

Ben Bernanke e i suoi stanno facendo di tutto per rivitalizzare un’economia che era moribonda dopo la crisi. Le misure convenzionali – tenere tassi d’interesse bassissimi – sono ormai quasi inutili. Con i politici latitanti ed incapaci di riformare il sistema fiscale – che significherebbe alzare le tasse o ridurre pensioni e sanità – gli economisti di Ben si sono messi a pompare soldi nell’economia. Ogni mese, la Fed spende 85 miliardi di dollari per comprare i buoni del Tesoro emessi dal governo – il denaro passa da una parte di Washington all’altra. Ma il semplice fatto che la grande Fed sta comprando in massa ha depresso i tassi d’interesse sul debito americano, spingendo gli investitori a cercare investimenti più lucrativi. Il mercato azionario è stato uno dei principali destinatari del denaro stampato da Bernanke. Fondi pensione, hedge funds e persino piccoli investitori hanno comprato azioni, ma più turandosi il naso che per convinzione.

Il mondo delle aziende li ha aiutati, annunciando utili decenti e dimostrando che gli anni di austerità durante la crisi sono serviti a tagliare spese, ridurre debiti e scegliere strategie più sobrie della crescita a tutti i costi. Con bilanci che straripano di denaro ma senza grandi idee di come investirli, molte società hanno deciso di dare soldi indietro agli azionisti. I dividendi e i riscatti di azioni sono a livelli record – un altro motivo per cui vale la pena comprare le azioni anche se l’economia è ancora giù di corda.

Questi due fattori – i soldi della Fed e gli utili delle aziende – sono le due chiavi per capire il mistero dei mercati. Gli investitori sono come la moglie bella e giovane di un signore anziano e ricco: sono attratti dal mercato per i soldi – 85 miliardi di dollari al mese, 300 miliardi di dividendi l’anno, 117 miliardi di riscatti azionari nel 2013 – ma non c’è amore vero.

Per gli ottimisti, questo è un buon segno. Immaginatevi, dicono, come saliranno i mercati quando l’economia ricomincerà veramente a tirare. Per loro, i robusti numeri sulla disoccupazione usciti venerdì sono il segno che la ripresa americana sta finalmente accelerando. Attenzione però all’altra faccia della medaglia: un mercato che ha raggiunto il record senza più tanta benzina nel serbatoio è un mercato fragilissimo. Basterà poco, un evento esterno – un lungo periodo d’instabilità politica in Italia, per dirne una – o dei dati non buoni per l’economia americana od europea per far correre gli investitori verso l’uscita di sicurezza.

Buon viaggio verso l’isola che non c’è.

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