Obama Arrives in the Middle East

Edited by Bora Mici

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Un’aspettativa diffusa, eppure venata di scetticismo. Sembra essere questa la sensazione prevalente, in Israele come fra i palestinesi, in vista dell’arrivo di Barack Obama, al suo debutto da presidente degli Stati Uniti su entrambe le sponde della Terra Santa. Due sponde opposte che – per motivi diversi – guardano con identici occhi dubbiosi allo storico sbarco nella regione del leader della Casa Bianca, preceduto oggi dal suo segretario di Stato John Kerry.

Un sentimento che si riflette nel profilo scelto dallo stesso presidente: almeno secondo le dichiarazioni e le indiscrezioni filtrate da Washington, stando alle quali Obama non intende presentarsi con alcun nuovo piano di pace organico. A testimoniare il clima può forse valere un ultimo sondaggio pubblicato dal «Jerusalem Post» secondo cui non più del 36,5% degli ebrei israeliani sente Barack Obama – presidente dell’alleato più vitale d’Israele – come un amico dello Stato ebraico. Percentuale cresciuta rispetto a un anno fa, ma ben al di sotto del 51% che lo reputa «neutrale», senza tralasciare un 10,5% che lo vede addirittura «ostile».

Accenni di sfiducia uguali e contrari a quelli che si respirano in Cisgiordania. Da Ramallah, l’Olp per bocca di Mustafà Barghouti ha ammonito proprio oggi l’illustre ospite che è finito «il tempo della passività», spronando Obama a mandare «un segnale deciso e chiaro ad Israele e alla comunità internazionale». Il rischio altrimenti – ha aggiunto è «il tramonto della soluzione di due stati».

Barghouti ha dato atto dell’importanza della doppia tappa prevista da Obama in Cisgiordania, dove dopodomani l’inquilino della Casa Bianca incontrerà il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen (Mahmud Abbas): «La prima volta di un presidente Usa – ha notato – dopo il riconoscimento dello Stato palestinese all’assemblea generale dell’ONU». Ma l’esponente dell’Olp ha denunciato anche che «a 20 anni dagli Accordi di Oslo la situazione della popolazione palestinese è peggiorata» e che «Israele ha aumentato le politiche di apartheid nei Territori occupati».

Barghouti ha quindi espresso forti riserve sulle speranze americane di rilancio dei negoziati dopo la formazione in Israele di un nuovo governo a trazione di destra: governo nel quale sia Naftali Bennett sia Yair Lapid (i nuovi alleati del Likud del premier Benyamin Netanyahu) non appaiono con le loro dichiarazioni «partner di pace» e rappresentano agli occhi dei palestinesi «solo gli interessi del movimento dei coloni». «Obama – ha concluso Barghouti – dovrà dunque decidere se essere uno dei tanti presidenti Usa che si sono succeduti o colui che cambierà la storia del Medio Oriente».

Da parte degli attivisti palestinesi, il giudizio pare ancora più drastico: Linah Alsaafin – giornalista freelance per Al Jazira ed Electronic Intifada – ha detto all’agenzia di stampa italiana ANSA di «non aspettarsi assolutamente nulla dalla visita. Dagli accordi di Oslo a oggi il numero dei coloni Israeliani e cresciuto da 200mila unità fino a 500mila e i parametri imposti dalla Road Map non sono stati minimamente assecondati». Abir Kopty, cristiana di Nazareth – una dei portavoce dei Comitati di Resistenza Popolare palestinesi – ha osservato a sua volta che «se anche ci sono poche aspettative sulla visita di Obama, da parte sia israeliana sia palestinese, alla fine qualcosa succederà. Ma naturalmente niente di positivo per i palestinesi, sia ben inteso». La sua impressione è che Obama «voglia giocare di sorpresa», ma solo su questioni limitate.

Yassmine Saleh, fondatrice di «Palestinians for Dignity», ha tagliato corto: «Credo che Obama venga qui principalmente per compiacere Israele e le lobby ebraiche. Non penso ci dirà niente di memorabile. E noi stiamo già organizzando una protesta con un messaggio chiaro per lui: Obama, puoi restare a casa».

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