Pivot to Asia: Here’s Obama’s Agenda for the Far East

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Il recente Libro Bianco pubblicato dal Governo Cinese sulla nuova dottrina di sicurezza del paese lascia trasparire la forte preoccupazione di Pechino nei riguardi del riposizionamento strategico americano nella regione.

La Cina accusa gli Stati Uniti di contribuire alla destabilizzazione dell’area a causa della sua crescente presenza militare. Washington, in risposta, afferma che le sue iniziative sono frutto di una “riallocazione naturale delle risorse” e che in alcun modo esse siano rivolte contro la Cina.

Questa discussione entra nel più ampio dibattito riguardante la dottrina strategica dell’amministrazione Obama, denominata “Pivot to Asia”, che consiste in un progressivo ma costante ribilanciamento degli interessi e della presenza statunitensi dal Medio Oriente verso l’Asia.

Ma quali contorni assume questa “nuova” strategia? Che cosa sta cambiando nei rapporti tra le due sponde del Pacifico da motivare un mutamento di approccio così manifesto da parte degli Stati Uniti?

Relazioni forti tra Washington e l’Asia non sono una novità. Rapporti economici e commerciali, in particolare tra Stati Uniti e Cina, sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi due decenni. Il nome “Pivot to Asia” non è, dunque, che un tentativo definire un fenomeno consolidato nel tempo. All’indomani della sua prima elezione, il Presidente Obama aveva la necessità di rompere col passato e di superare la dottrina geopolitica dell’era Bush, incentrata prevalentemente sul Medio Oriente e sulla guerra ad Al Qaeda a discapito di un’attenzione minore verso il resto del mondo, Asia inclusa. L’Asia Pivot risponde a questa esigenza.

Fino ad ora, tuttavia, le iniziative più rilevanti non si sono viste in ambito militare, bensì economico. In questo senso, le negoziazioni per l’ampliamento della partnership transpacifica potrebbe essere il primo reale elemento di novità. Si tratta di un accordo di libero scambio fortemente voluto da Washington e che include buona parte degli attori regionali. A segnalare il grande peso strategico che gli Stati Uniti attribuiscono al progetto, la missione ad inizio aprile del neo-segretario di Stato John Kerry in Giappone e Corea del Sud aveva tra gli obiettivi la conclusione dei negoziati come parte della definizione delle relazioni bilaterali.

In generale, è lecito aspettarsi rapporti strategici di mutuo vantaggio sempre più forti tra Washington e i suoi alleati, storici (come Taiwan e Australia) e più recenti (tra gli altri, Vietnam e Indonesia): per gli Stati Uniti, migliorare le relazioni con i propri partner significa aprirsi a nuove innumerevoli opportunità, assicurando in cambio ad essi protezione strategica e militare.

È dunque chiaro come questi comportamenti e iniziative siano considerate dalla Cina azioni finalizzate al contenimento, o quantomeno al disturbo, della propria libertà di manovra nella regione e nei rapporti con i propri vicini.

Senza dubbio, il comportamento assertivo e poco prevedibile della Cina nella regione è un fattore primario per il rinnovato interesse strategico americano. Gli Stati Uniti sono oggi l’unica potenza economica e militare in grado di contrastare eventuali minacce da parte di Pechino. Per questa ragione la maggioranza dei paesi limitrofi preme affinché Washington mantenga il suo impegno e presenza nell’area.

Tuttavia, considerare la dottrina americana dell’Asia Pivot esclusivamente rivolta al controllo della Cina è una lettura semplicistica e che rischia di limitare la reale comprensione delle sue ragioni. L’Estremo Oriente è una regione vastissima, eterogenea nella sua composizione culturale ed identitaria, e che presenta sfide politiche e sociali di forte interesse strategico per Washington, indipendentemente dal comportamento di Pechino. Questioni quali la proliferazione nucleare nella Penisola Coreana e il delicato equilibrio di forze per il controllo delle rotte marittime nel Mar Cinese Meridionale sono di rilevanza primaria per la preservazione degli interessi economici e strategici degli Stati Uniti. L’Asia Pivot è il tentativo più recente ed articolato di rispondere ad essi e il definitivo segnale che l’America è tornata ad essere un attore centrale nello scacchiere orientale.

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