Edited by Laurence Bouvard
Mentre in Siria continua il massacro e una serie di attentati con autobombe semina morte appena oltre il confine turco, a Washington e nelle altre capitali d’Occidente si gioca a braccio di ferro: intervenire o non intervenire, sostenere l’opposizione o temere le sue componenti qaediste, ritenere superata la «linea rossa» delle armi chimiche oppure attendere una improbabile verifica del loro utilizzo.
L’Europa è divisa come sempre, Obama tenta di prendere tempo, ma il tormento di entrambi è ormai alle corde davanti all’urgenza di una necessità politica che riguarda tutti: dopo ventisei mesi di impotenza bisogna «fare qualcosa» per porre fine alla mattanza siriana. Dopo 70.000 morti (in realtà si pensa siano molti di più), dopo cinque milioni di rifugiati tra interni e riparati all’estero, dopo chiarissimi segnali di allargamento del conflitto, chi vuole contare nel mondo non può più rimanere alla finestra. E chi conta, nel mondo, più degli Stati Uniti?
Alla dinamica classica di una superpotenza che ha paura di logorare la propria immagine e la propria influenza nella passività, Barack Obama prova a contrapporre argomenti razionali. La politica dichiarata della Casa Bianca, per cominciare, è di disimpegnarsi dalle guerre, non di farvisi coinvolgere. L’Iraq e l’Afghanistan fanno testo, la prudenza in Libia pure. E poi ci sono tre ostacoli non da poco. Primo, se l’America si muove lo deve fare in grande e con risultati sicuri (pur rimanendo escluso l’invio di truppe di terra se non per azioni di commando). Secondo, diventerà inevitabile l’elargizione di armi sofisticate (missili anti-aerei e anti-carro) ai gruppi di opposizione, i più forti e i più efficaci dei quali sono composti da potenziali futuri nemici jihadisti e qaedisti. Terzo, una partecipazione anche indiretta alla guerra civile siriana porrà gli Usa al centro della lotta sunniti-sciiti che avvolge ormai l’intera regione, anticiperà uno scontro con l’Iran che Washington ancora non vuole, e renderà molto difficile un futuro disimpegno.
Eppure l’emergenza umanitaria è diventata insostenibile. Eppure l’America non può, non può più, starsene con le mani in mano lasciando che ad aiutare i ribelli anti-Assad siano Qatar e Arabia Saudita (sunniti, appunto). Lo spazio di manovra si restringe, deve aver pensato Obama, ma una ultima carta da giocare esiste: la Russia. Il coinvolgimento di Putin, cioè, in una nuova conferenza di Ginevra sul modello di quella dello scorso giugno, con la presenza di oppositori e di governativi, avente per obbiettivo il varo prima di un cessate il fuoco e subito dopo di una fase politica transitoria. È attorno a questa comune volontà di Washington e di Mosca (la prima dall’inizio della crisi) che si sta lavorando freneticamente, è questo il progetto che traccia gli itinerari di John Kerry – la sua lunga sosta a Roma ha sottolineato il ruolo di «facilitatore» che sulla Siria e su altri contenziosi sta svolgendo l’Italia – ed è attorno a questo inedito patrocinio Obama-Putin che già si agitano scontente le opposizioni siriane e si mostrano prudenti Turchia, Qatar e Arabia Saudita.
La partita diplomatica, infatti, si annuncia difficile. Dopo tanto sangue e con tanta paura di non sopravvivere, davvero Assad e i suoi avversari saranno ancora disposti a negoziare? Chi garantisce le scelte di Putin, ora che il suo ministro Lavrov si è mostrato molto ambiguo sulla consegna a Damasco dei micidiali missili anti-aerei S-300? E soprattutto, se la sorte di Assad resta nel vago come è rimasta sin qui proprio per non riaprire i contrasti russo-americani, in che modo si eviterà che Ginevra II somigli a Ginevra I, rimasta tragicamente lettera morta?
Le speranze non vanno mai escluse e sono le nostre, ma la loro fragilità risulta evidente. Ed è chiaro anche qualcos’altro: la conferenza sponsorizzata da Stati Uniti e Russia sarà l’ultima spiaggia della prudenza di Obama. Non sarà possibile, in caso di fallimento, continuare a tergiversare, per quanto solide siano le argomentazioni sin qui sostenute dalla Casa Bianca. Se non altro Obama potrà dire di averle tentate tutte, e ricordare implicitamente che lui era contrario. Ma il volto dell’America, quello che viene visto dal resto del mondo, avrà soltanto la scelta tra forniture di armi, interventi aerei, creazione di no-fly zones , di aree-cuscinetto, di corridoi umanitari. Andrà tutto bene, perché l’importante sarà «fare qualcosa»
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