Brutti giorni per il presidente americano Barack Obama: i repubblicani lo accusano di non avere protetto l’ambasciatore ucciso in Libia con altri tre funzionari; il movimento conservatore dei Tea Party è furioso perché l’Irs, il fisco Usa, ha tenuto sotto mira i suoi finanziamenti; perfino la sinistra liberal, Guardia Pretoriana della Casa Bianca, lamenta un ministero della Giustizia ficcanaso sulle telefonate dei cronisti Associated Press.
Ogni presidente nel secondo mandato è vittima di scandali, veri o presunti, con cui l’opposizione, e una stampa ridotta alla petulanza dall’incapacità di analisi e di critica serie, cercano di limitarne l’opera. Prima di Monica Lewinsky, Clinton e sua moglie furono martoriati su una speculazione in Arkansas, il caso Whitewater, di cui nessuno capì il senso. Reagan inviò una torta agli ayatollah in Iran, nella vicenda disgraziata Iran-Contras. Bush figlio fu crocifisso per l’alluvione a New Orleans.
I repubblicani esagitati chiedono addirittura l’impeachment, l’incriminazione davanti al Senato, contro Obama.
Sarà dura, nella storia bisecolare della Repubblica solo due presidenti sono stati rinviati a giudizio, Andrew Johnson nel 1868 e Clinton nel 1998, entrambi prosciolti. La raffica di scandali serve a tenere il Presidente sotto scacco, paralizzare la riforma sanitaria, bloccare la legge sull’immigrazione, stopparne l’agenda per il ceto medio.
Come reagirà la Casa Bianca? Fin qui Barack Obama, cerebrale, distaccato, amletico, è riuscito a eludere le critiche non di parte, sia in America che in Europa. Denunciato a destra come «socialista» e coccolato dai sostenitori «un vero liberal», Obama è invece solo un centrista moderato. Nei suoi libri incoraggia la fine dello scontro politico in America e rimprovera le minoranze per il culto del vittimismo. «Tiratevi su i pantaloni fratelli» e andate a lavorare dice severo ai giovani afroamericani. In politica estera, dopo il magnifico discorso del 2009 all’Università del Cairo Al-Azhar in cui promise di «Ricominciare» il dialogo con i musulmani salutandoli «Assalaamu alaykum», Obama ha ordinato più raid con i missili droni di quanti non ne siano partiti sotto «il falco» Bush figlio. I repubblicani hanno difficoltà a dipingerlo da sinistrorso perché Obama la pensa giusto come la maggioranza degli americani: via dall’Iraq, via dall’Afghanistan, Dio ci scampi dall’intervenire in Siria, colpiamo i terroristi senza mettere a rischio i soldati, con robot teleguidati. Che questa sia una posizione «liberal» sembra difficile da sostenere, ma il fascino del presidente funge da cosmesi politica.
I bombardamenti allontanano la fiducia delle popolazioni civili predicava già nel 1963, in un testo dimenticato, James Eliot Cross, «Conflict in the shadows», guerra nell’ombra: «L’aviazione è troppo veloce per le guerre “politiche”, non distingue il nemico combattente dall’uomo o la donna civile e innocente, nemmeno se i soldati si fanno riconoscere agitando i fucili. La perdita di consenso dei bombardamenti sui civili pesa più di qualunque successo contro i guerriglieri eliminati». Cross, massimo esperto di controguerriglia, parlava di Vietnam ma la sua massima pesa adesso su Obama. Al tempo stesso, però, come dipingere da «debole» un presidente che scaglia dalla Casa Bianca missili droni come Zeus le sue folgori dall’Olimpo?
È dunque probabile che il Presidente se la cavi, salvo imprevisti. È ormai assodata la sua incapacità di «far politica» in Congresso, raccogliendo i voti dei repubblicani – per esempio sul porto d’armi, riforma benemerita e fallita – con la pazienza e l’umiltà di Lincoln nel bellissimo film di Spielberg. Ma i suoi rivali irritati e i suoi sostenitori perplessi, finiscono insieme per perdere la cifra che la Storia assegnerà a Barack Obama. Il suo carisma non trova riscontro nelle riforme approvate, ma il Presidente – grazie alla comprensione razionale dell’America del XXI secolo, identificata via Big Data raccolti dai suoi collaboratori – ha cambiato natura alla politica Usa. Oggi il partito democratico ha l’egemonia sui ceti urbani modernizzanti delle due coste, tra le donne e spopola tra gli emigranti, futura maggioranza. L’ottusità partigiana relega i repubblicani nella condizione di partito di minoranza in cui i democratici hanno languito dal 1968 al 1988, vincendo in venti anni una sola volta, e male, con Carter.
Allora i democratici premiavano alle primarie i candidati radicali, finendo bastonati alle presidenziali dai centristi, ora lo stesso destino tocca ai repubblicani che, senza le ubbie dei Tea Party, controllerebbero anche il Senato.
Questa eredità storica Obama lascia non al Paese, ma al partito: una nuova coalizione sociale. La coalizione di F.D. Roosevelt tenne – con la parentesi centrista e moderata di Eisenhower – i democratici alla Casa Bianca dal 1933 al 1968 grazie a lavoratori, intellettuali, minoranze, sindacati. Obama raccoglie minoranze «quasi maggioranze», ceti tecnologici, donne, città. Nixon rigirò la bilancia e diede una generazione di egemonia centrista ai repubblicani del Grand Old Party con i bianchi del Sud e gli operai ostili al 1968: quanto ci vorrà perché i suoi eredi battano la destra estremista e tornino a dialogare con ispanici e donne emancipate? Secondo molti osservatori lo schieramento di Obama durerà almeno una generazione. Secondo me il pendolo Progressisti-Conservatori che lo storico Arthur Schlesinger considerava simbolo della politica americana non si muove più al ritmo languido di un blues di Ella Fitzgerald, ma alla frenetica cadenza del rapper Nas. Obama ne ha rivoluzionato lo spartito e sopravviverà ai guai di oggi. I repubblicani impareranno però infine a suonare la salsa ispanica, i brani di The Voice cari alle donne giovani e la musica rap dei neri. Per ora, alla Grande Orchestra America, il bastone da direttore resta in mano al Maestro Obama.
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