Sembra un film dell’orrore già visto: uno di quelli che ti hanno così sconvolto che non vorresti rivederlo mai più. La svolta arriva dopo oltre due anni di guerra civile in Siria; dopo che era parso che gli insorti avessero partita vinta, mentre ora il regime è all’offensiva e riprende le città perdute; dopo tiramolla diplomatici tra tentazioni d’intervento e timori di cadere dalla padella nella brace, con tutti quei gruppi terroristici infiltrati fra i ribelli. Per la Casa Bianca, Assad ha superato la linea rossa spesso evocata da Barack Obama: ha usato armi chimiche. Le prove sono “numerose e riguardano diversi episodi”, dice Ben Rhodes, numero due a Washington per la sicurezza nazionale. Il gas sarin avrebbe fatto tra 100 e 150 morti, in un conflitto che conta almeno 93 mila vittime. Le agenzie d’intelligence americana ed europee concorderebbero in merito, secondo il New York Times. Vuol dire guerra al regime per cacciare Assad, come in Libia per cacciare Gheddafi?
In realtà, l’ambiguità continua, appesa al filo della riluttanza russa su un intervento militare in Siria. Obama annuncia un non meglio precisato “sostegno militare” agli insorti, ma non ha ancora deciso se istituire o meno, su aree di confine della Siria, una no fly zone, a tutela dei rifugiati. Per attuarla senza rischi, ci vorrebbe prima una serie di azioni ostili contro le difese anti-aeree siriane. E viene in mente Colin Powell all’Onu il 7 marzo 2003: doveva fornire al Consiglio di Sicurezza e al mondo intero, in diretta tv, le prove che l’Iraq possedeva armi di distruzione di massa e costituiva una minaccia. Quel giorno, Powell seppellì per sempre ogni sua credibilità politica: convinse solo quelli che volevano farsi convincere, mentre un applauso corale accolse l’interrogativo del ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin: “Perché una guerra ora?”.
Nemmeno tre settimane dopo, la notte tra il 19 e il 20, l’infermo di fuoco si scatenava su Baghdad. Non avverrà lo stesso su Damasco. Pur se, negli ultimi giorni, i comportamenti di Barack Obama gli sono valsi sull’Huffington Post la definizione velenosa “George W. Obama”: la rinuncia alla chiusura del carcere di Guantanamo, accettando di combattere il terrorismo violando in diritti dell’uomo; l’avallo alle operazioni di ascolto e intercettazione delle comunicazioni d’ogni tipo, affermando che la garanzia della sicurezza presuppone la rinuncia a una fetta di privacy; e, adesso, il passo sulla Siria. Già, perché adesso? Perché Assad ha usato le armi chimiche? O perché Obama deve scrollarsi di dosso la patina dell’inazione? Bill Clinton considera la linea dell’immobilismo fin qui tenuta “una follia”. E il Congresso è inquieto. La diplomazia internazionale si schiera lungo crinali che sono quelli del 2003: la Germania vuole una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza Onu; la Francia dice “non senza l’Onu”; la Gran Bretagna sta con gli Usa; la Russia è contro. Il momento della verità? Forse lunedì al G8 nell’Ulster, quando Putin e Obama ne parleranno insieme.
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