Startup and Espionage in the Era of Big Data

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Barack Obama a cena con i principali imprenditori della Silicon Valley

Sempre più stretti i legami fra servizi di intelligence e società della Valley

federico guerrini

Da quando il leaker Edward Snowden ha svelato, tramite il quotidiano britannico Guardian, come i servizi segreti americani e britannici raccolgano in maniera capillare tutti i dati postati da milioni di utenti su social network, motori di ricerca e affini, in molti si interrogano sulla reale estensione della cooperazione fra società della Silicon Valley e agenzie di intelligence. Ai dinieghi di Google, Facebook & C., del tipo ” non siamo a conoscenza di nessun programma chiamato Prism” – sono seguite prima caute ammissioni e poi sempre maggiori conferme.

Ma, senza in nessun modo sminuire le informazioni fornite da Snowden, non serviva certo la sua denuncia per sapere che fra la Valley, i servizi e il governo americano esistono legami molto stretti, vere e proprie “porte girevoli” da cui entrano ed escono funzionari, quote di capitale, prodotti.

Tutti conoscono Google Earth. In pochi, però sanno che questo magnifico prodotto di Google deriva da una tecnologia finanziata una decina di anni orsono dalla Cia. L’agenzia ha una sua società di venture capital, In-Q-Tel (IQT), che nel 2003 effettuò un investimento strategico in Keyhole Inc., startup pioniera della mappatura digitale via satellite. Keyhole fu poi acquistata nel 2004 da Google, ponendo le basi per quello che sarebbe poi diventato Google Earth. Non è un segreto: lo raccontano gli stessi 007 sul loro sito. Altri “successi” di IQT nel settore dell’investimento tecnologico, dal 1999 in poi, sono la società di sviluppo di software crittografici Decru, acquistata poi nel 2005 da Network Appliance, la società di riconoscimento facciale in 3D, A4Vision, poi ceduta nel 2007; Initiate System, specializzata nel trattamento dei dati, venduta nel 2010 a Ibm, e molte altre.

Governo, servizi e multinazionali della tecnologia, si scambiano perfino il personale. L’ex capo delle relazioni esterne di Google, Andrew McLaughlin è stato per qualche tempo vice Chief Tecnology Officer, cioè numero due della divisione tecnologia della Casa Bianca. Max Kelly, ex capo della sicurezza tecnologica di Facebook (ovvero, la persona a cui spettava proteggere la società dalle intrusioni informatiche) quando ha lasciato l’impiego di Palo Alto, si è trovato un altro impiego assai ben pagato. Dove? Presso la National Security Agency.

Google e la Cia vanno a braccetto anche in una startup, chiamata Recorded Future, di cui sono entrambi investitori. La mission aziendale: monitorare, scandagliare e analizzare il Web per individuare linee di tendenza; in una parola, ” predire” il futuro grazie a immense quantità di dati usati come materia prima. Un campo, quello dei Big Data, di straordinario interesse per enti, come la Cia, la Nsa e l’Fbi, il cui scopo primario è quello di raccogliere informazioni. e altrettanto importante per società come Facebook, Amazon, Google, Apple e Microsoft, per le quali i dati costituiscono spesso la base stessa del modello di business. È stato l’avvento dei Big Data, e i progressi nei sistemi di storage, che consentono di archiviare a basso prezzo enormi quantià di informazioni, come racconta un recente articolo del New York Times, a far sì che i legami già stretti fra Valley e servizi, si rafforzassero ancor di più. Uno degli ultimi segnali in questo senso, è l’annuncio dell’investimento, da parte di IQT, in Narrative Science, società focalizzata nel ricavare rapidamente, e mettere in evidenza, le informazioni più importanti racchiuse in grandi quantità di dati.

Quali conseguenze potrebbe avere, per l’utente comune, quest’ alleanza così stretta fra governo, servizi e multinazionali per tracciare profili sempre più dettagliati di chi naviga più Internet? Dobbiamo aspettarci un futuro in stile Minority Report, in cui saremo giudicati non per i nostri atti, ma in base alla probabilità di commetterli?

Per Viktor Mayer-Schönberger, direttore dell’Oxford Internet Institute (e autore di un recente libro intitolato appunto, Big Data) questa possibilità esiste: ” Sì, penso che dobbiamo preoccuparci – spiega a La Stampa.it – Attraverso grandi nalisi di dati possiamo fare predizioni relativamente buone sul comportamento umano. Ma queste predizioni sono probabilistiche – non danno mai certezze. Inoltre, sono basate su correlazioni – non ci dicono nulla sulla causalità, sul “perché”, ma solo sul “che cosa”. “Sfortunatamente – prosegue Mayer-Schönberger – il cervello umano è condizionato a vedere il mondo come una serie di cause ed effetti, e noi siamo sempre tentati di interpretare fatti in modo causale. Da qui la tentazion- e di abusare delle analisi dei Big Data,per assegnare alle persone responsabilità sulla base dei comportamenti predetti e non di quelli reali. È un crinale scivoloso verso la predeterminazione collettiva e contro il libero arbitrio. Dobbiamo porre in essere delle salvaguardie per proteggeri da questo pericolo, magari ampliando il significato di “giustizia” nell’era dei Big Data”.

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