A Black Man in a Hoodie Is a Threat: The Verdict that Wounded Obama’s America

<--

Uccidere “Cappuccetto Nero” non è reato in Florida, se a sparare è un vigilante bianco. La ingiusta “giustizia razziale” colpisce ancora con l’ assoluzione del giovane vigilante bianco che in Florida ammazzò un ragazzo nero di 17 anni colpevole di avergli fatto paura per il cappuccio della felpa sul capo. Anche se Obama ha invitato tutti «alla calma», finora soltanto qualche vetrina spaccata, un’ auto della polizia rovesciata a Oakland, una tempesta di tweet sdegnati nel futile frullare dei cinguettii elettronici. Ma l’ assoluzione di George Zimmerman che scaricò la sua pistola contro Trayvon Martin, armato soltanto di una confezione di caramelle non ha davvero sorpreso nessuno. Più che collera è malinconia quella che ha accesso fuochi lungo i binari di treni qua e là. «Sono devastata dalla tristezza – ha twittato Sybrina Fulton, la madre di Trayvon – e mi affido all’ amore di Gesù. In quest’ ora buia so che il Signore è ancora in controllo». Ma il Signore non ha ascoltato le preghiere di Sybrina quando, alle nove e trenta della sera di sabato nel tribunale di Sanford in Florida, le sei donne che componevano la giuria tutta femminile hanno proclamato l’ uccisore di suo figlio not guilty, non colpevole di omicidio in secondo grado, dunque non volontario o intenzionale. Lo hanno potuto fare grazie a una legge dello Stato della Florida che ha esteso i confini della legittima difesa alla «percezione della minaccia», non soltanto a una minaccia diretta. Per loro, l’ aspetto di quel ragazzo nero con il cappuccio della felpa sul capo, i suoi spostamenti in un quartiere prevalentamente abitato da bianchi in un sobborgo di Orlando dove una serie di furti in casa avevano acceso la paura, il confronto con Trayvon, che l’ avrebbe spinto a terra dopo avergli chiesto perché mai lo avesse seguito a lungo in macchina, furono minacciosi abbastanza per giustificare i colpi di pistola esplosi da Zimmerman, pattugliatore, aspirante Robin Hood, vigilante. La pistola era registratae portare un’ arma nascosta, come lui aveva nella fondina sulla schiena, in Florida è legale. In un’ investigazione, e poi nel processo che ha occupato le network televisive per ore di diretta, più dei fatti, delle testimonianze, degli indizi, è stato lo scorrere sul filo rovente della «giustizia diversa per razze diverse» che ha attanagliato l’ attenzione di milioni. Tutti i protagonisti, gli attori, gli spettatori, i media, il mondo della politica a partire da Obama sapevano benissimo quale fosse la domanda alla quale il processo avrebbe dovuto rispondere: Trayvon Martin, che non aveva fatto nulla di illecito, era una minaccia perché era un giovanotto nero in un quartiere bianco? La risposta è: sì. Questo si chiama racial profiling: caratterizzare una persona in base al suo «profilo razziale», il latino lazzarone e pigro, l’ italiano mafioso, l’ uomo nero violento e criminale. E’ il meccanismo che spinge le pattuglie sulle strade a fermare e controllare identità e documenti di guidatori afro al volante di auto di lusso. E’ l’ atteggiamento che aveva inquietato prima e terrorizzato poi George Zimmerman, nelle sue ronde volontarie, seguendo il ragazzo incappucciato e poi trovandoselo davanti, esasperato per quel pedinamento. «Trayvon Martin potrebbe essere mio figlio», era intervenuto anche il presidente Obama, quando, nei giorni successivi all’ uccisione del 26 febbraio 2012, era intervenuto per smuovere la poliziae la Procura. La sera della morte di Trayvon – il suo uccisore era stato rilasciato dalla polizia dopo le medicazioni per i piccoli tagli alla nuca e il ricorso alla legittima difesa – la comunità di colore della Florida, come i leader afroamericani ei media, erano insorti. Dopo 44 giorni, la Procura aveva finalmente aperto il procedimento che avrebbe portato al processo. Per la destra americana, e le sue voci nei media, era un processo politico, creato per soddisfare l’ elettorato di Obama e le lobby di colore. Per gli altri era l’ esatto opposto, confermato dalla domanda che il reverendo Al Sharpton e i vecchi attivisti come Jesse Jackson ripetevano: se fosse stato un ragazzo nero a sparare e uccidere un giovane bianco di 29 anni come Zimmerman, se la sarebbe cavata con qualche domanda alla stazione di polizia e poi il rilascio? Anche se sono trascorsi 50 anni dalle rivolte dei ghetti per l’ omicidio di Martin Luther King, e più di 20 dalle sommosse di Los Angeles dopo l’ assoluzione dei poliziotti che avevano pestato Rodney King ed erano stati ripresi senza saperlo, la crosta del vulcano razziale sopra la lava rovente è sempre troppo sottile per essere disturbata. L’ inchiesta e il processo, costruito su indizi fragili, sono stati fatti. E la ferrea verità dei tribunali è scattata: giustizia è quel sistema che deve decidere se sono più bravi gli avvocati della difesa o dell’ accusa. Ieri, domenica, le chiese delle comunità nere sono rimaste aperte tutto il giorno, anche oltre le funzioni liturgiche, per accogliere, sfogare e incanalare pacificamente la malinconia, la frustrazione, l’ amarezza di tanti. Soltanto a Oakland, la città che vide,e ancora vede, le esplosioni più dure di guerriglia razziale, sono volati sassi, manganelli e urla, più di rito che di sostanza. La famiglia di Trayvon ora promette di chiedere un processo per la «violazione dei diritti civili» del loro ragazzo ucciso, la stessa formula che permise di condannare gli agenti assolti a Los Angeles. Come George Zimmerman, un uomo libero, assolto perché ha avuto paura della nuova fiaba terribile di “Cappuccetto Nero”

About this publication